Pubblichiamo un articolo di Giorgio Faletti che uscì nel fascicolo 1/2009 del bimestrale culturale dell'Università Cattolica «Vita e Pensiero», nella sezione "L'intruso". Il testo nasceva dalla trascrizione di un incontro promosso dal Corso di alta formazione in Scrittura creativa, il 27 novembre 2008, a Milano, in Università Cattolica.
«Scrivere? È stato il primo sogno nel cassetto»
La mia vita è stata costellata di cose che non avrei dovuto fare, ma che in realtà mi sono ritrovato a fare. Volevo esibirmi come cabarettista e ho iniziato la carriera scrivendo testi per altri. Tutti mi chiedevano: perché vuoi fare il cabarettista? Non hai la faccia da comico! Fai l’autore, mi dicevano, è una carriera sicura, si guadagnano molti soldi. È arrivato il mio momento in tv e mi sono affermato. Poi mi sono interessato di musica. E allora mi dicevano: perché vuoi scrivere canzoni se sei un comico? La gente non ti accetta come cantante.
Tre anni dopo ero quasi sul punto di vincere il Festival di Sanremo. Poi ho cominciato a scrivere. E le persone mi chiedevano: ma perché scrivi? Quando hanno saputo che avevo scritto un thriller, mi dicevano: perché non scrivi un libro comico? Uno come te potrebbe vendere 30.000 copie. A oggi «Io uccido» mi pare abbia superato i 4 milioni solo in Italia. Insomma, è un po’ come la pubblicità di quella nota carta di credito: «Fare l’autografo a chi ti aveva detto di lasciar perdere: non ha prezzo».
Io però ho tenuto duro, sono andato contro molte regole, con autodisciplina, maturità e una componente fondamentale per il successo: il colpo di fortuna. La stessa definizione di genialità o mediocrità è infatti sempre soggetta alle mode, o a quella che può essere considerata una rivalutazione nel tempo. Non esistono però i geni incompresi. Coloro che hanno anticipato la propria epoca al punto da essere troppo avanti, a un tratto vengono riscoperti. Con gli attuali mezzi di comunicazione non si corre più il rischio che la genialità non sia, prima o poi, riconosciuta.
Il mio amico Paolo Conte, per esempio, ha scritto canzoni bellissime, ma con la voce che si ritrova molti all’inizio gli hanno dato poco credito. Nel corso degli anni si è affinato ed è stata la stessa critica che in passato lo aveva stroncato o ignorato ad acclamarlo come grandissimo artista. La genialità e il talento prima o poi pagano. Esistono infatti tre giurie: i Festival, la gente e soprattutto il tempo. Quando ci si è sottoposti a tutte e tre, allora si può cominciare a parlare di genialità.
Per quanto mi riguarda, tuttavia, non sono – né mi sento affatto – un nuovo Hemingway, o l’erede di Joyce... Sono uno scrittore, certamente, ma faccio parecchia fatica ad attribuirmi lo stesso ruolo di Hemingway, a pensare che io e lui esercitiamo lo stesso mestiere. In effetti, mi ritengo ignorante come un sedano, anche se la gente spesso crede che quando ci si afferma come scrittore si abbia per definizione una cultura sterminata. La voce “scrittore”, d’altra parte, comprende moltissime varianti e all’interno esistono diverse sfumature... Io, in particolare, mi sono dedicato al thriller, quella che, chiamata “letteratura di genere”, preferisco definire letteratura commerciale, da spiaggia. Essendo dei veri e propri “mattoni”, questi tomi hanno poi un secondo utilizzo: si possono buttare nel camino per alimentare una bella fiamma, oppure possono essere d’aiuto se c’è un tavolo che traballa.
Del mio libro c’è anche un’edizione per l’Ikea, da montare. D’altronde, sono nato nel Cinquanta, parlo di un’epoca che sembra morta e sepolta e ancora oggi mi stupisco di averne fatto parte. Mio nonno era un uomo che s’ingegnava, andava in giro, comprava e vendeva un po’ di tutto. Aveva un magazzino, dove un giorno sono arrivati interi pacchi di libri. In quell’occasione ho scoperto che al mondo c’erano volumi di ogni genere. Allora avevo 10 anni. Ho letto di tutto: «Per chi suona la campana» di Hemingway, «L’amante di Lady Chatterley» di Lawrence e altro ancora. La lettura è molto importante perché è attraverso di essa che desumi le regole della scrittura e capisci quando mollare un pezzo e andare da un’altra parte. Se poi devo citare qualche autore che mi ha influenzato, questi è di sicuro Mark Twain, a mio avviso il creatore del romanzo moderno.
Ma ve ne sono altri: ho amato Steinbeck e soprattutto il già citato Hemingway, che mi ha dato emozioni particolari, forse perché l’ho letto da ragazzino. Quando da piccoli si compravano i libri dal libraio, i genitori aggiungevano dei regali, di solito un astuccio. Io ho chiesto i «49 racconti» di Hemingway: mio padre non sapeva nemmeno cos’erano. In «Per chi suona la campana» c’è una pagina, quella in cui Pilar descrive l’odore della morte: Hemingway avrebbe potuto scrivere anche solo quella pagina e avrebbe meritato lo stesso di entrare fra i grandi.
Ciò conduce a un’altra riflessione, sul fatto che in Italia c’è forse tanta quantità e poca qualità. Parlavo l’altro giorno con un mio amico del «Corriere della Sera», che faceva parte della giuria di un premio letterario. Discutevamo di Paolo Giordano. In particolare, mi raccontava che una delle prime obiezioni poste da un critico è stata che il libro non poteva essere premiato perché aveva venduto molto. Eppure, «Il vecchio e il mare» è uscito con un supplemento domenicale di un settimanale che ha venduto 5 milioni di copie. Secondo questo ragionamento avrebbe dovuto essere un libro di scarso valore. Al contrario, è meraviglioso. Ciò per dire che da sempre esiste una conflittualità fra critica e autori. Chi vuole scrivere non deve prendere come oro colato la critica, perché è volubile e cambia. Lo dico per esperienza personale. Occorre invece, senza dubbio, molto talento, applicazione e duro lavoro.
Per arrivare a un romanzo, soprattutto, è importante che una persona senta dentro il bisogno insopprimibile di scrivere (confesso che il mio primo sogno nel cassetto quando avevo 16 anni era diventare scrittore, e in un certo senso il cerchio ora si è chiuso). Per iniziare, ciò che conta è la prima parola, poi, un’altra e un’altra ancora. Il mio personale approccio alla scrittura non si avvale di una procedura ferrea e vincolante. Semplicemente, parto da un’idea molto piccola e da una stesura molto contenuta.
A questo filo, aggiungo una serie di dettagli: che cosa pensa il protagonista, qual è il suo atteggiamento, così fino a costruire il capitolo. Una volta concluso, lo rileggo con occhio critico. Ed è qui che comincia l’operazione più difficile, vale a dire tagliare le parole in eccesso. Si tratta di un momento non facile per lo scrittore, perché per lui ogni parola è come un figlio e tutto quello che ha scritto sembra indispensabile. Eppure, si deve avere il coraggio di compiere quest’operazione. Conta molto mettersi lì poco per volta e non cadere nella trappola in cui restano spesso invischiati gli autori alle prime armi, desiderosi di voler scrivere subito la parola fine. La fretta di concludere è qualcosa di insopportabile.
Non va poi dimenticato il lavoro dell’editor o del redattore, che analizza ogni pagina, ti segnala le parole che hai utilizzato e quante volte le hai adoperate. Ricordo che nel secondo romanzo, Niente di vero tranne gli occhi, una redattrice mi aveva fatto notare di aver scritto 8.000 volte «in quel momento». È molto utile, quindi, avere a fianco persone competenti e saperne ascoltare i consigli.
Il mio approccio alla storia, come detto, consiste nel partire da un’idea, iniziando dal punto A e volendo arrivare al punto B. Nel mezzo, c’è un certo numero di capitoli e quando ci arrivo so già che avrò uno snodo narrativo da risolvere per arrivare al punto C. Non ho il dramma di capire: adesso cosa succede? So già cosa succede ed è chiaro che se in corso d’opera emerge qualcosa di meglio lo inserisco.
Per esempio, nel terzo romanzo, Fuori da un evidente destino, c’è nel primo capitolo un personaggio che va a caccia. Accanto a lui c’è un cane che si chiama Joe. Ho pensato: mandiamolo a caccia con l’arco, per fare una cosa originale. Ma la caccia con arco e cane è qualcosa di antitetico. Allora mi è venuta l’idea di creare un cane che non abbaiava mai, chiamandolo Silent Joe, in modo da essere perfetto per la caccia con l’arco. A questo punto subentra la parte narrativa, e mi sono chiesto: come dovrà essere questo cane? Un mio amico ha un cane che si chiama Leone, vive all’Elba e non fa un passo uguale all’altro.
Questo per dire che un autore si appoggia anche sulle cose che lo circondano. Credo sia molto importante vedere ciò che si ha intorno. Io cerco di documentarmi il più possibile perché quanto più scrivi cose vere, tanto più hai la possibilità di inventare. In «Io uccido», libro che parla del mio vero grande amore, la musica, si trovano sia artisti veri sia altri frutto della mia fantasia. Come Robert Fulton, un bluesman a tal punto verosimile che alcuni lettori sono andati realmente alla ricerca dei suoi dischi. Per me è stato un risultato enorme perché ho reso plausibile una cosa non vera.
Per il resto, credo che ogni arte abbia la sua tecnica; ma la tecnica non è arte. Si possono imparare degli artifici tecnici, ma le regole sono anche date per essere distrutte.