martedì 9 agosto 2016
La “seduzione” del Daesh
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La trasformazione è lenta. Inesorabile. Sonia e Melanie, diciassette e sedici anni – interpretate da Noémie Merlant e Naomi Amarger –, fanno parte della borghesia francese: scuola, amiche, divertimenti, libri e un violoncello. Ma qualcosa si incrina in loro. Cresce la rabbia, la ribellione: contro la famiglia, le istituzioni, il loro Paese. Vanno alla ricerca di un paradiso, che il radicalismo islamico offre loro insieme a un percorso di follia, rivoluzione, utopia. Il Festival di Locarno proietta Le ciel attendra in Piazza Grande – in Francia uscirà il prossimo 5 ottobre, in Italia si spera presto. Il pubblico segue, silenzioso. Il soggetto scritto da Marie-Castille Mention-Schaar, che ha anche girato e prodotto il film, è da prima pagina: troppo attuale, molto doloroso. In gioco il futuro di intere famiglie e della società. Le due ragazze vengono carpite e assoldate dal jihad islamico, cambiano il loro modo di vivere, si fanno arrivare un niqab per posta, lo indossano fiere. Solo una di loro partirà per la Siria, e scomparirà. «Per questo il cielo deve attendere ancora Sonia – precisa la regista –. Per lei la vita torna ad essere più importante della promessa che le era stata fatta, ossia un paradiso di delizie senza più malattie, ingiustizie, odio. Raggiungendolo, però, con un’idea distorta anche della morte: si preparava al martirio e a una strage».

L’Occidente a volte si dimostra incapace di fornire dei modelli di vita. Il reclutamento nasce da lì? «Non so se la prima tappa sia la presa di coscienza di questa crisi. Penso che l’adolescenza non sia cambiata di molto: i giovani continuano a porsi interrogativi sul senso della loro vita e sul mondo che li circonda. Da ragazza sentivo forte il richiamo di personaggi come Madre Teresa, che dispensavano il bene, che riparavano le ingiustizie del mondo. Oggi credo manchino dei modelli forti. I giovani continuano a cercare il senso profondo della vita, ma cominciano a capire che non lo si trova nel denaro, nell’apparenza. Il radicalismo islamico subdolamente coglie questo disagio, offre risposte forti, chiare, propone alternative manipolando le menti».

Mancano dei modelli assoluti in cui identificarsi? «Oggi la gioventù ha come modelli di riferimento i giocatori di calcio, i cantanti: i soldi che guadagnano, l’immagine che riflettono. La politica non ha più nulla da offrire. Soffrono anche di riferimenti spirituali, a meno che non siano credenti convinti appartenendo a una religione: per i cattolici è naturale che le parole di papa Francesco indichino un modello di vita. Ma pensiamo a tutti coloro che non hanno riferimenti chiari».

Lei ci tiene a ricordare che questo è un film sull’amore. «Senza l’amore, prima di tutto quello dei genitori, non sarebbe possibile salvare questi figli. Ho l’impressione che l’amore sia diventato oggi qualcosa di sorpassato, infantile, una parola scontata. Più andiamo verso le tenebre, più abbiamo bisogno d’amore. Per Melanie, più che l’amore ha presa su di lei il bisogno di sentirsi amata: dagli amici e soprattutto da un uomo. Qui è il pericolo e lei non se ne accorge. Per Sonia è diverso: è una ragazza forte, idealista, è colta da una necessità più spirituale. Chi le adesca lo sa e tenta prima di tutto di isolarle dal resto del mondo e separarle dalle famiglie».

Le madri del film hanno un ruolo importante.  «Ho parlato con molte più madri che padri. Questi hanno più pudore nel raccontare, hanno un rapporto diverso nei confronti del dolore, vivono come una colpevolezza l’aver perso il loro ruolo di protettori della famiglia. La madre si espone di più. Affronta direttamente i problemi. Nel film Sandrine Bonnaire e Clotilde Courau danno un volto a questo dolore e a questo coraggio».

Ci tiene a ribadire che non è un film sulla religione e sull’islam. «Il padre di Sonia è un musulmano, eppure la figlia gli sfugge di mano, gli si rivolta contro, gli grida: “Ora c’è Allah, tu non conti più nulla per me”. L’unica volta in cui nel film si fa cenno all’islam è per dire che quello cui si convertono le due ragazze non è il vero islam. Oggi, purtroppo, con tutto ciò che accade, si confondono facilmente le cose».

È stato difficile fare ricerche su queste situazioni familiari così delicate? «Ho avuto la fortuna di incontrare Dounia Bouzar, che appare nel film, il cui aiuto è stato fondamentale. Lavora presso il “Centre de prévention, de déradicalisation e de suivi individuel” che affronta decine di casi come questi. Ha messo la sua sicurezza tra parentesi, ricevendo minacce quotidiane. È stato il modo per conoscere esattamente quello che succede nelle famiglie prima e dopo che i figli se ne siano andati in Siria e Iraq a combattere».

L’idea del film le è venuta prima o dopo la tragedia del Bataclan?  «Dopo l’attacco a “Charlie Hebdo” e prima di quello al Bataclan. Ho cominciato a girare il film nel totale anonimato esattamente il lunedì dopo quest’ultima strage. Per nove mesi, come se fosse la nascita di una speranza. Devo essere sincera: non ci sono stati dei motivi veri e propri che mi hanno fatto decidere. È stato un istinto, come una pulsione. Questo film è nato dall’urgenza di dover affrontare una storia come questa. Sono una madre, ho una figlia di vent’anni e un figlio di tredici, non potevo aspettare un minuto di più».

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