sabato 24 agosto 2024
Su “Repubblica” Niola rilancia il tema della resistenza del politeismo nel cristianesimo. Ma si fraintende se non si colgono sia la capacità di accogliere e trasformare, sia le differenze teologiche
La statuadi san Domenico avvolta dalle serpi durantela festadei serpariil 1 maggioa Cocullo (L’Aquila). Il rito riconducibileai culti della dea Angizia

La statuadi san Domenico avvolta dalle serpi durantela festadei serpariil 1 maggioa Cocullo (L’Aquila). Il rito riconducibileai culti della dea Angizia - Ansa

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L’articolo di Marino Niola, intitolato “Eterni ritorni. La dea in esilio vestita da madonna” e apparso su “La Repubblica” di mercoledì 21 agosto scorso, ha il grande merito di impostare la tematica del rapporto fra paganesimo e cristianesimo che, nelle varie epoche a partire dalle origini cristiane, si è proposta e si ripropone con la sua radicale valenza culturale e teologica. Il testo offre notevoli spunti di riflessione e, si spera, di discussione alla teologia e all’agire ecclesiale, con le sue tutt’altro che banali provocazioni a partire da tesi che si possono e si devono non condividere, ma affrontare con onestà intellettuale.

Interessante e intrigante l’aver preso le mosse da un’annotazione di Wolfgang Goethe, nel suo Viaggio in Italia. Alla data del 26 maggio 1787, da Napoli, il genio tedesco dichiarava l’opportunità «che vi siano cotanti santi, ogni fedele si può scegliere quello che gli pare migliore, e volgersi ad esso con tutta fiducia». Il testo prosegue con la dichiarazione della scelta di san Filippo Neri (di cui in quella data ricorre la memoria) a propria figura di santità di riferimento. E tuttavia questa presa di posizione sui numerosi santi si inquadra nella prospettiva neopagana propria del pensiero e della poetica goethiani. Il Weltkind, infatti, secondo l’interpretazione preziosa di Xavier Tilliette, si inscrive fra i «nemici della croce». Sintomatica a tal proposito la reazione indispettita e il dissenso manifestato allorché gli venne mostrata la medaglia che gli allievi avevano regalato a Hegel in occasione del suo sessantesimo compleanno con le immagini della civetta e della croce. A proposito di quest’ultima, Goethe ebbe a scrivere: «Non capisco perché debba amare la croce, per quanto io stesso debba portarla» (episodio e citazione riportati da Karl Löwith nel suo Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria nel pensiero del secolo XIX, Einaudi 1949). Culto dei santi pensato come trasposizione del politeismo pagano, adorazione della croce no. Non sembra dissimile tale postura a quella di molti cattolici, per lo più mediterranei, e giustifica con un nobile richiamo la tesi che percorre l’articolo del Niola. Resta altresì il fatto che il cristiano non è chiamato ad adorare la croce ma il Crocifisso risorto, veramente uomo e pienamente Dio.

La questione è complessa e diversificata, sia a livello del protocristianesimo sia, ad esempio, per quel che concerne il rapporto fra neopaganesimo e cultura moderna e postmoderna. Quanto alle origini resta a tal proposito sempre istruttivo tornare a un classico del pensiero teologico quale quello di Hugo Rahner Miti greci nell’interpretazione cristiana (il Mulino, 1971). Qui, ma anche in altri testi, si mostra come il cristianesimo non abbia semplicemente debellato e sconfitto il paganesimo, piuttosto tentato di includerlo attraverso le sue istanze più autentiche di tipo antropologico. Tali istanze possono essere ricondotte ad esempio al senso del sacro, della pluralità e della concretezza (come, ad esempio, si esprime nelle mitologie), che ovviamente vanno purificate in rapporto al politeismo e all’idolatria. Un processo che possiamo rinvenire nel Paolo degli Atti degli apostoli. Allorché egli prende la parola nell’areopago ateniese esprime attenzione verso il senso religioso dei greci: «Ateniesi, vedo che, in tutto, siete molto religiosi. Passando infatti e osservando i vostri monumenti sacri, ho trovato anche un altare con l’iscrizione: “A un dio ignoto”. Ebbene, colui che, senza conoscerlo, voi adorate, io ve lo annuncio» (At 17, 22-23). Salvo poi a riportare all’annuncio del Dio di Gesù Cristo e della resurrezione dai morti tale senso religioso. Di qui un’indicazione di metodo: non possiamo lasciare il popolo di Dio che venera Maria e i santi senza condurlo all’unico vero Dio e alla Croce di Cristo, altrimenti rischiamo – e Niola ce lo ricorda – di alimentare il paganesimo, dal quale la nostra fede impara l’attenzione alla pluralità non solo perché aderisce a un monoteismo non solitario, ma trinitario, ma anche perché vive l’unico credere in un – si spera – sano pluralismo di appartenenze spirituali, culturali e teologiche, quale le diverse figure di santità esprimono.

In tale orizzonte prospettico – ed è qui il dissenso verso la tesi dell’antropologo articolista – i santi non possono essere considerati come trasposizione cristiana delle divinità pagane, protettrici di vari aspetti dell’esistenza. Piuttosto si tratta di mostrare come il Vangelo non sia un’utopia irrealizzabile, ma può essere incarnato nelle diverse epoche della storia, da diversi soggetti a qualsiasi genere o condizione appartengano o a qualsiasi età, uomini o donne, bambini, adolescenti, adulti, persone consacrate o sposate, insomma tutti volendo possono partecipare alla santità, come realizzazione radicale del messaggio evangelico in forme diverse e specifiche.

Quanto alla metamorfosi della dea che diventa Madonna, si tratterebbe di Iside, madre di Horus e sposa di Osiride, denominata in ambito pagano theotokos, ossia madre di Dio, stesso sintagma attribuito a Maria di Nazaret nel Concilio di Efeso (431 d. C.). Non si tratta di una semplice trasposizione o deificazione della Madonna, bensì di un profondo e radicale cambiamento di prospettiva. Se una dea può normalmente generare un dio e una donna un uomo, qui al contrario si afferma che una donna ha generato Dio. La generazione del dio da parte della dea avviene nel mito e quindi nella metastoria, quella del figlio di Dio da parte di una donna accade storicamente. Particolarmente significativo a riguardo il libro di Massimo Cacciari, Generare Dio del 2017. Il paradosso è evidente e risponde in pieno alla logica cristiana che si qualifica appunto come paradossale.

L’articolo offre un ulteriore spunto di riflessione nel riferimento all’Agostino del De civitate Dei, che è veritiero, ma va contestualizzato. Allorché vigeva ancora una presenza forte della forma pagana di religiosità nel mondo antico, era opportuno segnare la distanza e la differenza, onde evitare, in coloro che si erano convertiti, pericolose nostalgie verso la precedente appartenenza. E questo intende fare il vescovo di Ippona. Per noi, la fede cristiana nella sua forma cattolica, attraverso il culto di Maria e dei santi, nella prospettiva teologica del Dio di Gesù Cristo, acquista una dimensione popolare, che non può essere ritenuta semplicemente deviante, se ben espressa e contestualizzata, ad esempio alla luce del documento del 2002 della Congregazione per il culto, dal titolo “Pietà popolare e liturgia”, che va letto, meditato e approfondito.

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