In Francia, nessuno aveva portato finora sul grande schermo il tema delle conversioni di musulmani al cristianesimo. Un argomento considerato forse troppo complesso e spinoso per essere trattato attraverso i codici cinematografici. Tanto più in un Paese segnato da mai spente tentazioni istituzionali laiciste e da un trattamento non di rado superficiale riservato nei media al fatto religioso. Anche per questo, l’uscita nelle sale nei giorni scorsi di
L’Apôtre (L’Apostolo), della regista Cheyenne Carron, ha suscitato l’attenzione di certi commentatori. Ma non si può dire lo stesso dei distributori, dato che appena 4 copie della pellicola circolano attualmente in Francia. A Parigi, solo un cinema, il Lincoln, ha programmato il film. E nella più vasta regione parigina, neppure questo spiraglio. Un vero paradosso, per un’opera ambientata proprio nella
banlieue della capitale. E soprattutto, una flagrante ingiustizia, per una pellicola che dipinge con intelligenza e grande umanità il cammino interiore di conversione al cattolicesimo del protagonista Akim, inizialmente destinato dalla famiglia a diventare imam. Rispetto al film
Uomini di Dio, del cineasta non credente Xavier Beauvois, capace di squarciare nel 2010 un certo muro di gomma francese rivelando che un film religioso può divenire pure un grande successo di pubblico,
L’Apôtre è il frutto di una regista che non nasconde di essere una credente fervente. E nelle alte sfere del finanziamento cinematografico transalpino, pubblico o privato, nessuno ha mai fatto concessioni alla Carron, che anche per
L’Apôtre ha dovuto ricorrere ad espedienti quasi romanzeschi (come l’invio di una lettera personale ai 10 maggiori magnati di Francia) per raccogliere gli 1,9 milioni di euro della produzione. Il risultato, ispirato da una storia vera rimasta nella memoria d’infanzia della regista, sorprende e convince fin dalle prime scene per la sua freschezza e schiettezza. La Carron punta tutto sue due fuochi narrativi. Innanzitutto, il ritratto del giovane Akim, la sua quotidianità e la fenditura che gli si apre dentro davanti a un fatto accaduto a qualche isolato da casa: la sorella di un prete è strangolata da un vicino musulmano, ma il sacerdote decide di restare nel quartiere, spiegando che la sua presenza «aiuterà a vivere» i genitori dell’assassino. E poi il confronto della famiglia musulmana di Akim, benestante e culturalmente aperta, con i precetti e certi riflessi tradizionali legati alla pratica religiosa. In particolare, con il trattamento comunitario più o meno intransigente e duro riservato agli “apostati”, i convertiti a un altro credo. Su quest’ultimo punto, il messaggio del film si orienta alla fine verso l’ottimismo: pur dopo una prova difficile, la forza degli affetti familiari può resistere e alla fine prevalere sugli impulsi d’intolleranza. Ma è soprattutto la delicatezza con cui viene tratteggiata la conversione di Akim ad accrescere la cifra del film. È una storia di mani che sfiorano muri grigi in cerca d’appiglio, di passi malsicuri in boschetti di banlieue, d’incontri clandestini fra giovani con radici familiari musulmane e irradiati dal messaggio di Cristo, di stupore amoroso di fronte all’incanto di un battesimo in una chiesa prima ignorata. E l’alchimia filmica deve molto all’interpretazione talentuosa di Fayçal Safi, toccante ad ogni stadio dell’intima metamorfosi. Già vincitore quest’anno in Vaticano del premio speciale della Fondazione Capax Dei nel quadro del
Festival Mirabile Dictu, il film ha ricevuto in generale una buona accoglienza dalla stampa francese. Per
Le Monde, ad esempio, la Cayenne «riesce a trasformare un tema polemico in un messaggio di speranza e tolleranza come se ne vedono raramente ». Si tratta di un film «molto semplice nella forma, ma tanto vero e in fondo tanto bello in ciò che mostra dell’uomo da indurci a sperare». Alla luce anche di simili critiche, per una regista fra l’altro già al suo quinto lungometraggio, la distribuzione irrisoria del film appare ancor più come un ingiusto dazio inflitto alla coraggiosa Carron.