La riedizione de
L’ordalia ne “Le Monete” di Castelvecchi mi riporta alla mente l’immagine di uno scrittore che padre Ferdinando Castelli ha più volte segnalato come una delle figure più interessanti di quello che lui stesso definisce il Novecento dell’inquietudine. Germanista di razza, anche se mai ebbe una cattedra, tra i suoi saggi una
Vita di Goethe (1981), una
Storia del teatro tedesco moderno (1976), e i circa duecento articoli sulla cultura letteraria tedesca apparsi ne «L’Osservatore Romano», «la Repubblica», «la Stampa» e raccolti nel saggio
Literatur, Chiusano ebbe fortuna a 43 anni grazie a
L’Ordalia che nel 1979 entrò tra i finalisti del premio Selezione Campiello.Lo conobbi a Roma nella circostanza della presentazione e a trascinarmi all’incontro furono Gino Montesanto e Tano Citeroni, che ne erano molto amici, per averlo conosciuto, Gino, allora programmista Rai, tra i corridoi di Viale Mazzini. Amici al punto che Citeroni convinse più tardi Chiusano a scrivere un romanzo su Corradino di Svevia e Chiusano dedicò nel 1990 il libro, che si chiamò
Konradin, all’amico. Una storia della casata tedesca vista attraverso la microstoria, una vicenda vissuta dall’interno della psicologia fragile dell’ultimo svevo. Molte frequentazioni romane tra noi, soprattutto per la sua collaborazione alla Rai dove io ero entrato nel 1979 come programmista e dove lui aveva già realizzato varie sceneggiature, da
Orfeo in Paradiso di Santucci, nel ’71 a
Le affinità elettive del ’79, fino alla vita di
Don Luigi Sturzo che Italo scrisse nel 1981.A metà del nostro rapporto di amicizia un viaggio ci portò a villa Vigoni, dove il Ministero della Cultura tedesco invitava una diecina di narratori italiani (ricordo la Maraini, Consolo, Milani, Pazzi) e alcuni critici tedeschi (Wolfang Leppman) a ragionare di romanzo storico. Chiusano era specialista come già ho detto, di storie nella storia, avrebbe raccontato per esempio l’incapacità dell’uomo di godersi il proprio tempo, affamato sempre di passato, seguendo il
Vizio del gambero. Me lo ricordo attento e taciturno, anche nelle nostre passeggiate pomeridiane attraverso i viali dei grandi giardini e tra i corridoi tappezzati di ritratti firmati da Hayez. Come necessitato ad ascoltare le voci di dentro più che il mondo esterno. Aveva un ragionare sobrio, misurato, mai fatto di chiacchiera ma sempre ricco di profondità, di conoscenze. Un carattere dolce e affabile, anche se all’apparenza scostante e poi sempre elegante, in abito blu rigato e i capelli e la barba cenere. Proprio un uomo affascinante. Chiusano disse in quella circostanza che era per una narrativa storicistica che utilizzasse il racconto storico per agitare problemi. La storia come metafora e come spaccato lontano utile a darci la globalità dei temi. Parlò della Donazione di Costantino e dell’attaccamento della Chiesa al potere temporale. Un tema che era stato centrale ne
L’Ordalia, un romanzo che basta da solo a descrivere i temi e le riflessioni di Chiusano sui conflitti tra Chiesa e spiritualità. Runo, lettore nella cancelleria del Vaticano, è un giovane a due passi dall’ordinazione sacerdotale. Alle domande del protoscriniario Adriano su ch cosa pensi della Chiesa, Runo pone col coraggio dei giovani i propri dubbi: «il papa, i vescovi e i preti, fino all’ultimo lettore come me, combattono per ottenere e conservare pezzi di terra… E ciò dico per l’oro, l’argento e tutto il resto. E anche per quell’imperio che non è di terra e di denaro: neanche questo è giusto volere, per chi serve Cristo, che tali cose rifiuta». Il vecchio Adriano è preoccupato e al tempo stesso sollevato, concorda con Runo ma gli raccomanda: se non si vuol mettere nei guai non ne faccia parola con alcuno. Guardingo il maestro prova ad aprirsi: conserva copia di un documento con cui Costantino ha donato a papa Silvestro le terre su cui sarebbe nata la Chiesa di Roma. «È un falso – gli rivela – il documento risale al 750 dopo Cristo». Adriano mette il fuoco nel cuore di Runo che dall’inferno ammette: «Avevo scoperto una Chiesa che non potevo più servire. Perciò dovevo fare una scelta. Ma quale?». Trovo folgorante la descrizione che Runo-Chiusano fa dei pellegrini in arrivo presso la città eterna: «Stavo volgendo le spalle alla città dove si fabbricavano falsi nel nome di Cristo. Ma quelle anime correvano là come al lavacro, quasi Cristo avesse custodito immacolata, in tutti quei secoli, la sua Chiesa. Col loro canto quei romei lavavano ogni cosa, purificavano la cancelleria del Laterano, le prigioni di Castel Sant’Angelo». Runo è bell’e convinto, non può che spretarsi e tornarsene a casa. Ma i suoi sono morti e il signore del posto ha pensato bene di togliere loro la terra e assegnarla a un altro. Un documento con firma sicuramente apocrifa, attesta che Runo non possiede più la proprietà. Ancora un falso! Nella vita laica e in quella ecclesiastica. E da questa scoperta si scatena una vicenda folta di interrogativi sul dissidio tra spirito e materia, tra i beni che attualmente persegue la Chiesa e quelli che il Vangelo propone da sempre. Runo incontra Petro, un monaco che crede ciecamente nella mano di Dio e che si sottopone a un’ordalia, lo scontro che decide la verità. Sconfitto, Petro accetterà la verità scoperta da Runo, ogni cosa sia vagliata dalla ragione. E in nome della ragione il giovane va incontro all’imperatore Ottone III, chiedendogli di sconfessare la Donazione di Costantino e liberare definitivamente la Chiesa dei beni materiali. Un romanzo di formazione che anticipa di un anno
Il nome della rosa e che potrebbe essere stato tra i libri letti da Eco.