Senza confini. Come la sua musica, come il suo imminente tour che partirà a febbraio tra Russia (persino in Siberia), Stati Uniti (in aprile) e Cina (sette date in agosto). Ma anche in Italia, a marzo, da Firenze a Milano, da Roma a Bologna, da Verona a Bolzano. Inseguendo quell’ancestrale suono, inarrivabile e misterioso, che per Roberto Cacciapaglia è insieme missione e ossessione, fin dai lontani studi di fonologia connaturati al diploma in pianoforte sotto la guida di Bruno Bettinelli al conservatorio “Verdi” della sua Milano. Sempre alla inesausta ricerca di un chimerico Quarto tempo, titolo del suo più celebre disco uscito dieci anni fa con la collaborazione della Royal Philarmonic Orchestra di Londra e ora riproposto in doppio cd (edizione Deluxe) anche con la reinterpretazione solo piano dei dodici brani originali, più una versione inedita di The boy who dreamed aeroplanes.
Senta Cacciapaglia, perché questo tuffo nel passato?
«In attesa del mio nuovo lavoro che uscirà a marzo, ho voluto realizzare un progetto che avevo in mente già dieci anni fa, quando l’abbiamo registrato. Riportare quei brani dalla versione orchestrale al solo pianoforte è come proiettarsi da un macrocosmo al microcosmo. E ho voluto tornare proprio a Londra, ai mitici Abbey Road (che ho preso a modello anche per realizzare il mio studio a Milano), dove il master del nuovo disco è stato mixato in modo naturale per cercare la massima purezza possibile del suono».
E come ha fatto?
«Con 14 microfoni e giocando solo sui livelli del volume. Non ho usato nessun tipo di equalizzatore e di manipolatore di suono. E io sono uno che ha sempre fatto sperimentazione a trecentosessanta gradi. A partire da quella che negli anni ’70 e ’80 chiamavo musica elettronica finta, visto che in realtà era realizzata tutta con strumenti acustici. Adesso la chiamerei “biologica”».
Termine più di moda...
«Definizioni a parte, è la musica che farò anche ora nel mio tour. Sul palco sarò al pianoforte, accompagnato soltanto da un violoncello e da una postazione elettronica con un software il cui effetto è diffondere raggi sonori dal pianoforte, un processo di naturale espansione per un certo tratto. Suoni non manipolati, ma appunto biologici».
Ma non è che a volte in lei il fonologo rischia di prevalere sul compositore e sul musicista?
«Musica, tecnologia e acustica naturale non sono in contrasto. Per questo mi interessa come approccio, rappresenta bene questa nostra epoca che sta riscoprendo la verità della natura e dell’ambiente in cui siamo immersi. La manipolazione che stravolge l’essenza del suono, modificandolo, non vale più. È un approccio vecchio, roba degli anni ’70 e ’80. Negli ultimi tre anni, dal mio disco Alphabet, utilizzo appunto software che hanno la proprietà di portare alla luce armonici non udibili da orecchio umano, suoni che Pitagora definiva essenza dell’universo».
D’accordo, ma ricerca sonora a parte il pubblico ai concerti come reagisce?
«La musica è essa stessa uno strumento. Il mio pubblico lo sa, perciò è portato a vedere nella musica una porta per percepire ciò che è dentro e fuori di noi. Le vibrazioni sonore sono delle autostrade energetiche. Il senso del suono è superare tutti gli ostacoli, soprattutto in questa epoca che ne ha più che mai bisogno. Io dopo ogni concerto incontro il pubblico e sento un feedback speciale. In fondo si suona con gli altri per espandere l’amore e la compassione».
Che effetto le ha fatto invece essere finito nel nuovo disco di un rapper come T-Pain? Non siamo proprio sulle stesse lunghezze d’onda...
«Beh, io sono sempre stato per lo sconfinamento, la musica è libertà. Però T-Pain non lo conoscevo. La Sony da New York mi ha chiesto se poteva utilizzare un mio brano per il suo album Oblivion. La prima parte è stata lasciata identica, poi T-Pain ci ha costruito sopra un altro pezzo, ci ha rappato. La cosa buffa è che ho letto che la stampa specializzata americana ha parlato di svolta nello stile di T-Pain. So che questo Second chance è stato il più ascoltato dell’intero disco e tra i primi su Spotify».
Corsi e ricorsi, del resto agli esordi lei non scriveva forse jingle pubblicitari? Non proprio musica alta...
«Mi mantenevo gli studi al conservatorio. Ma non lo dico con snobismo, perché la musica bella può essere ovunque. Anzi, quell’attività è stata una grande scuola. Io più che sul motivetto degli spot, lavoravo sulla struttura dei pezzi. Microstrutture musicali, vere e proprie forme con una introduzione, uno sviluppo e un finale. E lì non si può sbagliare, perché ci sono di mezzo parecchi soldi».
Come nel pop, che il suo vecchio compagno di sperimentazione Battiato alla fine decise di abbracciare.
«Quello che conta è sempre la qualità. Conobbi Franco a sedici quando anche lui si occupava di musica elettronica. Io studiavo al conservatorio e lavoravo allo studio di fonologia della Rai. Poi mi comperai il Wcs3 che usavano i Pink Floyd e i Roxy Music con Brian Eno e collaborai con Battiato per il suo Pollution del ’72. Ho lavorato anche con la grande Giuni Russo, con l’arrangiamento del suo album Vox dell’83. Era un essere speciale».
A proposito di esseri speciali, lei scrisse anche la colonna sonora per un film sul controverso Gustavo Rol...
«Lo girò Nicolò Bongiorno, io composi le musiche. Un personaggio incredibile, un sensitivo illuminato. Imperscrutabili dimensioni, oltre i comuni confini».
E lei cos’ha incontrato di ulteriore e sconfinato nella musica?
«In momenti molto rari mi è capitato suonando di avere indescrivibili percezioni ultraterrene, come un bagliore, una scintilla. Così tendo ancora, continuamente, a ritrovare quelle folgorazioni, come se non potessi più farne a meno. In fondo io faccio musica proprio per toccare corde dell’anima che in nessun altro modo potrei far risuonare. Fuori dallo spazio e dal tempo».
È questo il suo vero Quarto tempo?
«Il titolo del mio disco sta proprio ad indicare questa insondabile entità che elude passato, presente e futuro e in un attimo ti fa ritrovare in un non luogo che li trascende. È il potere della musica, che rispetto a tutte le altre arti ha la prerogativa di lasciarti libero. In un brano o in una canzone ognuno di noi ci sente e ci mette dentro se stesso, unico e particolare. La musica non ti dà nessuna indicazione, è un’arte primordiale e insieme modernissima. Intima e condivisibile nello stesso momento. Quasi come il silenzio. Da lì io parto sempre quando mi metto a comporre».
Punto di partenza e, in definitiva, di arrivo...
«Il silenzio è lo spazio da cui posso addentrarmi in uno stato profondo di consapevolezza interiore. Io non faccio musica associativa, non mi interessa descrivere, ma andare a cercare il vuoto. Un’onda che risuona nell’ascoltatore. Oggi invece, per non voler ascoltare l’eloquenza profonda del silenzio, che temiamo, usiamo la musica come un salvagente. Invece dovremmo mollare questo salvagente e diventare un po’ come subacquei che vanno nelle profondità, soprattutto in questa epoca di caos».