Nino Benvenuti è la seconda stella, ma ancora la più luminosa della sua Isola “che non c’è”. La prima, è stata la squadra dei canottieri, medaglia d’oro alle Olimpiadi di Amsterdam del 1928. Erano gli eroici vogatori di Isola d’Istria, il paesino carezzato dall’Adriatico dove Nino Benvenuti, la leggenda vivente del nostro pugilato, è nato nel 1938 e in cui ha vissuto la sua “meglio gioventù”. «Quelli in Istria sono stati gli anni più dolci della mia vita, con la grande fortuna di crescere in una famiglia stupenda, isolana da quattro generazioni, in cui regnavano l’amore e l’armonia che mio padre e mia madre avevano trasmesso a noi figli». I cinque fratelli di casa Benvenuti, quattro maschi (Eliano, Nino Alfio e Dario) e una femmina (la più piccola, Mariella). Di quel tempo pacifico e spensieratamente ludico, gli è rimasto il sapore familiare delle «patate in tecia e dello strucolo de pomi», ma soprattutto l’odore del mare che partiva dal banco della pescheria paterna. «Tutto intorno odorava di pesce salato. Anzi senza quell’odore, Isola non sarebbe stata più la stessa. Sì, perché Isola era un paese di pescatori e tutta la sua cultura, la sua storia, la sua gente veniva dal mare. E viveva grazie al mare», ha scritto Benvenuti – a quattro mani con Mauro Grimaldi –, nel libro L’Isola che non c’è (finalista al Premio Bancarella Sport). Titolo romantico che rimanda al celebre brano di Edoardo Bennato, se non fosse per quel sottotitolo, “Il mio esodo dall’Istria”, che invece, parla di fuga, di dolore e di morte. «I fascisti parlavano di bonifica etnica, gli slavi di normalizzazione. Alla fine si è trattato solo di violenza che ha generato altra violenza», dice amaro Nino. Il germe velenoso si insinuò in quella piccola comunità «composta a maggioranza da italiani puri» che, dalla nazionalizzazione di Mussolini e dal controllo delle truppe tedesche, due anni dopo l’8 settembre 1943 si ritrovarono braccati dai partigiani di Tito. «Il Maresciallo ordinò le epurazioni di noi italiani d’Istria con processi sommari, espropri, torture. La gente spariva dal mattino alla sera... Tito cominciò da Zara nel ’44 dove fecero 2mila morti su una popolazione di 20mila abitanti. Poi toccò a Fiume che cambiò nome in Rijeka e infine nel ’46 a Pola con 28mila esuli su 34mila abitanti». È il bilancio drammatico dell’uomo di oggi che è scampato al peggio e che prima di quei giorni assurdi si preparava al suo destino di campione. Nella cantina di casa il giovane Nino si era costruito il suo sacco da boxeur e due-tre volte alla settimana in sella a una bici copriva i 60 km tra andata e ritorno che separano Isola da Trieste, per andare ad allenarsi in una vera palestra pugilistica. «Mi accompagnava Luciano Zorzenon, il primo a credere che sarei potuto diventare un asso del pugilato. Era un personaggio degno di Salgari: lavorava come palombaro a Isola per recuperare i resti del transatlantico Rex affondato dagli inglesi nella baia di Capodistria». Quelle tappe estenuanti erano ancora scanzonate, fino al giorno in cui la guerra fratricida non entrò in casa Benvenuti. «L’Ozna, la polizia politica di Tito, si presentò alla nostra porta e arrestò mio fratello Eliano che aveva 16 anni. Rivedo ancora le lacrime di mia madre, la sua disperazione. Soffriva di cuore, da quel giorno iniziò a morire, si spense a 46 anni», ricorda con profonda amarezza. Intanto Tito aveva annesso Trieste dove sui muri si leggeva: “Trst je nas” (Trieste è nostra). Seguirono quaranta giorni di sangue (dal 1° maggio al 9 giugno del ’45), prima dell’arrivo degli americani. Un tempo sufficiente per il massacro della comunità italiana in Istria da parte dei titini che se la presero anche con i preti. Benvenuti ricorda don Francesco Bonifacio, ucciso a guerra ormai finita nell’estate del ’46, e monsignor Antonio Santin, vescovo di Trieste e Capodistria che, accusato di essere un nemico del popolo jugoslavo, subì le percosse di una banda di balordi. Il parroco di Isola, don Giuseppe Dagri, scampò alla morte fuggendo. Maestri e professori delle scuole italiane lo seguirono, ma alcuni non riuscirono ad arrivare a Trieste (tornata sotto l’Italia nel 1954), dove il loro “calvario” non era ancora terminato.«Ricordo il pianto dei miei nonni il giorno che lasciarono Isola, erano consapevoli che non l’avrebbero più rivista. Vennero con noi a Trieste dove avevamo già un’attività commerciale e una casa e così non siamo finiti, come la maggior parte dei profughi, nei 109 centri di accoglienza che erano stati allestiti. Baraccopoli dove istriani e dalmati venivano trattati da “indesiderati”, così tanti preferirono emigrare in Australia o in America, insomma il più lontano possibile da quella terra amata e perduta». Una terra da cui Nino portò via con sé solo «i ricordi delle piccole cose» che aveva appena imparato a conoscere ed amare. «Io e i miei fratelli andavamo pazzi per i giochi che facevamo per la strada o giù al porto, a Castel Verde. Pomeriggi d’estate passati a pescare “mussoli” e “peoci” (le cozze) e d’inverno tutti assieme ci riscaldavamo davanti al “fogoler” (focolare). Mi è rimasto dentro quel dialetto di Isola e crescendo nonostante le gioie e i tanti momenti di gloria che mi ha regalato lo sport e la vita, non sono riuscito a cancellare quel senso di sradicamento. Come a degli alberi, a noi italiani d’Istria hanno strappato le radici, per sempre». Dopo l’oro olimpico di Roma 1960 il record dei 170 incontri vinti prima della sconfitta «ingiusta» con il sudcoreano Kim Soo Kim e, mentre si avviava a salire sul trono del re dei superwelter (nel 1965-’66) e poi dei medi (dal 1967 al ’70), Benvenuti tornò nella sua Isola per essere festeggiato. «Un ritorno toccante, un’accoglienza calorosa, ma rivedere quel piccolo cimitero, che avevo lasciato distrutto dai titini, mi ha fatto più male dei pugni presi nel match con Carlos Monzon o della spugna che il mio allenatore Amaduzzi gettò sul ring di Montecarlo. Ci può essere dignità anche nella sconfitta, ma oggi so che l’unica vera sconfitta subita è stato vedere calpestata la dignità e la memoria di un popolo... Mi consola che finalmente tutto ciò sono riuscito a scriverlo, per raccontarlo ai miei figli, ai miei nipoti e a tutti coloro che non conoscono questa triste pagina della nostra storia. È il mio ricordo, senza odio, perché ai giovani e alle generazioni che verranno ho solo una verità da comunicare: tutte le guerre sono terribili, ma l’odio che generano è il male peggiore».Nino Benvenuti-Mauro Grimaldi L’ISOLA CHE NON C’È Il mio esodo dall’Istria Libreria Sportiva Eraclea Pagine 112. Euro 12,00
La leggenda azzurra del pugilato racconta la sua vicenda di esule istriano: «Ai giovani voglio dire che le guerre generano solo odio e quello è il male peggiore».
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