Dopo l’arresto e il sì all’estradizione delle autorità sudanesi, è stato trasferito in Italia, dove ora si trova in stato di arresto, in attesa del processo per i reati di cui è accusato (a partire dall'associazione a delinquere finalizzata al favoreggiamento dell'immigrazione clandestina) e per i quali è già stata formulata richiesta di rinvio a giudizio.
Il cinismo e i milioni del boss
«Dicono di me che ne faccio salire sempre troppi sui barconi, ma sono loro che vogliono partire subito e io li accontento...», rideva, cinico, Medhane in un dialogo intercettato dalla procura di Palermo nel 2014. (LEGGI L'ARTICOLO)Secondo gli inquirenti, diverse indagini "attestano il coordinamento da lui eseguito personalmente con i trafficanti responsabili della "rotta terrestre" africana ed i contatti con i complici operanti in Europa" (in particolare nei Paesi Bassi e in Svezia, dove Medhane ha moglie e un figlio), nonché "gli ingenti profitti derivanti dalla sua attività criminale ed il disprezzo della vita umana dei migranti".
Medhane è accusato di aver gestito ininterrottamente dal 2012 migliaia di migranti, organizzando il successivo viaggio verso le coste italiane. La sua banda stipava centinaia di migranti su barconi o gommoni fatiscenti e spesso con i motori malandati, senza preoccuparsi del rischio di eventuali naufragi. La rete di trafficanti aveva intessuto legami fra il Nord Africa e le coste italiane, con basisti nei centri accoglienza di Mineo e Siculiana ma anche a Roma e Milano.
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Le indagini erano partite dopo la tragedia del 3 ottobre 2013 davanti alle coste di Lampedusa, in cui annegarono 366 migranti.
Grazie al business della tratta, Medhane avrebbe accumulato milioni di dollari. Ogni migrante pagava fra i 4mila e i 5mila dollari per l'intero viaggio, diviso in tappe, fra l'Africa subsahariana e il Nord Europa. Con quel denaro, il boss corrompeva poliziotti libici per far uscire dalle prigioni profughi somali, sudanesi o eritrei trattenuti in quel Paese (che poi avrebbero dovuto restituirgli il "favore" con gli interessi), progettava investimenti a Dubai o acquistava proprietà nella terra d'origine, come una villa in Eritrea pagata "13 milioni". Senza preoccuparsi della sorte di chi faceva imbarcare: il 24 agosto 2014, in una telefonata, dice a un complice di aver fatto partire diverse centinaia di migranti. Una settimana dopo, un basista gli fa sapere che "dei 400 migranti partiti, ne sono sopravvissuti solo quattro".
Sulle tracce di Ermias
C’è un altro presunto boss ancora latitante, al quale il Servizio centrale operativo della Polizia, diretto da Renato Cortese, e le agenzie di intelligence danno la caccia. È Ermias Ghermay, etiope (ricercato dal 2015, quando scattò a suo carico il primo provvedimento restrittivo) e accusato fra l'altro di aver acquistato «talvolta direttamente dai trafficanti veri e propri pacchetti di immigrati per trarne maggiori profitti, anche rendendosi complice di veri e propri sequestri di persona».