Appena l’altro giorno si sono presentati due ragazzi. Lei, 18 anni, allieva parrucchiera; lui, 20 anni, 400 euro al mese con un contratto precario. La ragazza era andata in Mangiagalli a chiedere l’interruzione di gravidanza. Poi, all’ultimo, qualcosa dentro di lei si è ribellato. Li hanno mandati al Cav, il Centro di aiuto alla vita che da quasi trent’anni opera nella più grande maternità milanese. La ragazzina dapprima era confusa, ma poi: «Non importa se tu non lo vuoi», ha detto alla fine al fidanzato, «lo terrò io, comunque». È dal 1984 che Paola Bonzi, fondatrice del primo Centro di aiuto alla vita a Milano, si trova davanti storie come questa. Oltre 18 mila bambini da allora a oggi sono nati in città, grazie agli operatori del Cav Mangiagalli; solo nel 2012 sono stati 1.223. Ma ora il primo storico Cav di Milano rischia di chiudere i battenti. Mancanza di fondi. Il bilancio è in rosso di 300 mila euro. Quella che per migliaia di donne italiane e straniere è stata la porta simbolica cui bussare, potrebbe dovere chiudere. «Fin dall’inizio – spiega Paola Bonzi – il Cav è stato autonomo, senza legami con gruppi politici o ecclesiali. L’ho fondato io quando, dopo avere avuto i miei figli, una malattia mi ha reso cieca; lì è maturato in me il desiderio di aiutare le madri in difficoltà. Quando siamo stati riconosciuti come consultorio abbiamo avuto il contributo annuale dell’Asl, che oggi è il nostro unico introito certo, insieme alla vendita primaverile delle primule nelle parrocchie milanesi. Oggi abbiamo in carico 2.700 donne con il loro bambino fino ai 12 mesi dalla nascita. Usufruiscono del contributo Nasko della Regione, attualmente ridimensionato: 100 euro al mese fino al parto, 200 fino all’anno del bambino, e ben 11 moduli da compilare, che fanno impazzire i nostri operatori. Naturalmente questa cifra non basta a una donna sola o disoccupata. Noi ci facciamo carico di assistenza, corredo, pannolini, tutto materiale che acquistiamo, e anche di un tetto per chi proprio non ce l’ha. Riceviamo tutto il giorno, senza appuntamento: mediamente sono sei o sette, quotidianamente, le donne che si presentano, in forse se abortire. Oggi tenere aperto il centro e dare i contributi promessi alle donne già in carico costa 5.000 euro al giorno. Non ce la facciamo a andare avanti. A giugno, temo, dovremo chiudere». Ma fino ad oggi come si è retta questa avventura? All’inizio avevamo iniziato con l’autofinanziamento con vendite o spettacoli, ora non ce la faremmo più per l’eccessivo carico di lavoro. Intorno al 2007 ci trovammo in forte difficoltà e il presidente Formigoni stanziò 500mila euro della Regione, cui si aggiunsero 200mila euro del Comune e un contributo di 95mila euro dalla lista elettorale di Giuliano Ferrara. Ora abbiamo consumato questi fondi, anche perché, nel frattempo, la domanda delle donne è molto cresciuta; solo dal 2007, sono venuti al mondo più di 6.000 bambini. Le donazioni di privati in questi tempi sono rare. Siamo decisi a garantire alle 2.700 madri già in carico gli aiuti promessi. Ma per chi arriverà non c’è più niente». Già: non ci sono più soldi e si chiude. Quanti uffici in Lombardia in questi mesi hanno subito la stessa sorte. Ma qui, spiega Paola Bonzi, c’è in gioco qualcosa di ben diverso: «Lei si immagini di avere davanti a sé su quella poltrona una ragazza che le dice di essere incinta. Fa la badante o magari la precaria, e la prima cosa che perderà con la maternità è il posto. È straniera, o in tre casi su 10 italiana, spesso sola. Ti azzarda esitante quel pensiero: ma voi, se io tengo il bambino, mi aiutereste? E tu sai che non stai negando un impiego, ma sei davanti a un aut-aut, stai decidendo della vita di un bambino. Sarebbe terribile, dover trovarsi a dire: no».Trovarsi a dire no quando, come l’altra mattina, telefona un’insegnante e dice di una sua alunna incinta, 19 anni, famiglia divisa, e il ragazzo che se ne è già andato: «Posso portarla da lei, signora Bonzi? Magari lei sa trovare le parole». Trovarsi a dire no quando una donna sola decide, contro ogni argomento di ciò che chiamiamo "buon senso", di avere un figlio; e ha bisogno di tutto, ma prima di tutto di una promessa: «Lei, il giorno del parto, non mi lascerà sola?». E allora Paola Bonzi, in sala d’attesa come una nonna trepidante, che quasi piange quando le mettono tra le braccia il bambino. Storie di 29 anni nella più grande maternità milanese; di quei 18 mila figli nati che, naturalmente, non sanno che il loro destino è passato un giorno da queste stanze, e era allora un filo molto, molto sottile. Perché il nascituro è l’invisibile per eccellenza: non parla, non mendica per strada, apparentemente non esiste.La signora Bonzi in queste settimane è malata e sta a casa. Dietro di lei, in soggiorno, le foto dei figli e dei quattro nipoti. Sulla sua bella faccia generosa di chi non giudica, ma tende comunque una mano, si legge il dolore all’idea che questa grande storia milanese finisca. «Sa, ho fatto un conto: a Milano siamo un milione e 300 mila, basterebbe che ciascuno rinunciasse a un solo caffè all’anno, per farci andare avanti...».Gran brutto segno, certo, che in questa grande e generosa città chiuda quella porta, in Mangiagalli; gran brutto giorno quando una ragazza, una donna, sul filo del passaparola arriverà a quell’ufficio e lo troverà chiuso. E quel bambino in lei si sentirà dire, come nella canzone di Jannacci, "no, tu no"; tu no, piccolo, non ci son soldi, e abbiamo ben altro, a cui pensare.