Agenzia Romano Siciliani/Kna
Quattro anni fa la salute è stata al centro dell’agenda politica di tutti i governi. Quattro anni fa abbiamo imparato che un Servizio sanitario nazionale forte, in caso di emergenza, è un argine importante di fronte a una minaccia sconosciuta. Abbiamo imparato che “nessuno si salva da solo” e che il benessere dell’individuo può essere inscindibilmente legato al benessere dell’intera comunità, senza distinzioni di censo o locazione geografica. Ed è stata questa, forse, la più grande lezione che la pandemia ci ha lasciato.
Ciò significa, necessariamente, che la prima istanza di ogni politica sanitaria deve essere posta sulle condizioni di svantaggio, che la sanità pubblica ha diritto di essere difesa nell’interesse di tutti e che i tagli in sanità, per quanto sartoriali, finiscono, quasi sempre, per infliggere una ferita che rischia di sanguinare sulla pelle dei più fragili.
Ogni programmazione e ogni azione di politica sanitaria ha bisogno di conoscere lo stato di salute della popolazione. I dati “Passi”, quelli che il nostro Istituto periodicamente pubblica in collaborazione con le Aziende sanitarie di tutto il Paese, contribuiscono a fare questo e, a leggerli con attenzione, ci raccontano molte delle fragilità di un Paese ancora profondamente diviso. Tra Nord e Sud. Tra chi ha difficoltà economiche e chi non ne ha. Tra chi è istruito e chi non lo è.
Sono forbici antiche, che conosciamo, ma sulle quali oggi serve riflettere se vogliamo assicurare il diritto alla cura per tutti perché oggi queste forbici stanno diventando molto più larghe.
Anticipo solo qualche dato tra quelli che usciranno a breve: tra gli anziani che hanno difficoltà economiche, oltre la metà non riesce ad avere accesso alle cure, mentre solo il 2% di chi è benestante trova le stesse difficoltà. Dati, questi, che confrontati con l’ultimo report, dello scorso dicembre, destano ancora maggiore preoccupazione. E non va meglio sul versante della prevenzione perché anche in quel caso sono le fasce più deboli ad avere la peggio: allo screening per tumore della mammella, per esempio, accedono solo cinque donne su dieci tra quelle che hanno la licenza elementare, mentre l’adesione tra quelle laureate è di otto donne su dieci. Vale la pena sottolineare inoltre che se in Emilia Romagna il tasso di adesione allo screening è di oltre l’80% in Calabria è appena del 9,7%.
Sono numeri, certo, ma sono numeri che pesano. Ci restituiscono l’urgenza del cambiamento, non possono dirci “come” cambiare ma possono senz’altro suggerirci “dove” e “cosa” cambiare. Osservandoli, questi dati, viene in mente la complessità di ciò che li ha determinati. La fotografia della sanità di un Paese, infatti, è frutto di tante variabili, anche socio-economiche. Per incidere sul futuro sanitario di una popolazione, infatti, è cruciale decidere quali siano gli interventi prioritari, e questa è un’operazione in un certo senso chirurgica, che necessita di visione e di precisione. Nel disegnare il futuro è centrale, innanzitutto, una riflessione sulla sostenibilità delle scelte da intraprendere per garantire l’equità, e questa va fatta a partire dall’accessibilità anche per i più fragili in modo da facilitare la sincronizzazione delle tante velocità a cui viaggia questo Paese.
Ognuno di questi dati, se osserviamo i diversi rapporti Passi, mostra una cronicizzazione di vecchie problematiche per l’assistenza sanitaria a cui si aggiungono nuovi fattori come, per esempio, l’aumento dei costi delle cure o il progressivo isolamento sociale degli anziani. Gli anziani, che nel 2050 costituiranno il 35% della nostra popolazione, non solo accedono con difficoltà alle cure ma uno di loro su tre è a rischio di isolamento sociale con la possibilità di incorrere in sintomi depressivi, perdita di autonomia e maggiore frequenza di ospedalizzazioni. È stato, infatti, proprio riflettendo su questi numeri, prodotti dalle nostre strutture, che ho voluto creare un gruppo di lavoro specifico, interdipartimentale, sulle diseguaglianze in salute nel nostro Paese, in modo che i nostri ricercatori potessero condividerli e inquadrarli in una visione più ampia e sinergica in grado di essere una vera e propria lente che guarda nell’ottica della sanità pubblica.
La sanità non è solo prescrivere farmaci, eseguire esami diagnostici, dispensare prestazioni ambulatoriali, ma è una rete, una rete che previene e cura. Lo scenario che abbiamo di fronte è sicuramente tra i più complessi degli ultimi decenni, soprattutto sul piano economico, ma resta il fatto che la salute non si può trattare solo come un bilancio aziendale.
Serve, innanzitutto, una continua azione di riequilibrio, conciliare strategie sostenibili a lungo termine con obiettivi più vicini, dettati dall’urgenza.
Con l’aumento delle malattie cardiovascolari e quelle oncologiche, che sono oggi tra le prime cause di mortalità, tra le più onerose per il Ssn, è necessario pensare alla ricaduta che queste hanno anche sui nuclei familiari. Non è ammissibile, come ci spiegano i dati della Federazione italiana delle Associazioni di Volontariato in Oncologia (Favo), che le famiglie in cui c’è un malato oncologico debbano spendere mediamente circa duemila euro per esami, visite diagnostiche e altro, né che debbano attraversare la penisola per avere un’assistenza migliore. Non è, d’altra parte, accettabile che 65.000 morti l’anno di queste stesse patologie potrebbero essere evitate modificando gli stili di vita. Due facce diverse di un problema che richiedono due diverse strategie, una a breve e una a lungo termine.
La parola “solidarietà” oggi nel Sistema sanitario nazionale ha bisogno di essere nuovamente affermata e nuovamente riscritta. Servono investimenti importanti su tutto il sistema, ma serve anche la contribuzione delle fasce più forti a garantire per i più fragili l’accesso alle cure, altrimenti rischia di saltare la sostenibilità del sistema. Serve motivare economicamente i medici perché si concentrino sulla sanità pubblica. Il Servizio sanitario deve assicurare retribuzioni adeguate e ben differenziate per il proprio personale divise a seconda del grado di professionalità, esperienza, perizia e condizioni lavorative, con stipendi differenziati anche per stesse professionalità. Serve difendere i medici, come ha fatto la recente legge voluta dal ministro Schillaci, perché – ricordiamolo – i medici lavorano anche in una trincea emotiva e non sempre controllabile. È necessario costruire un Ssn con direttori generali e primari meglio remunerati ma rigidamente valutati sia nei curricula che nel raggiungimento degli obiettivi.
A lungo termine, poi, serve investire in cultura. L’istruzione – lo dicono tutti gli studi – è un determinante della salute, e ogni azione che rende consapevole le persone sui fattori di rischio si traduce in meno morti per cancro, per diabete, per incidenti cardiovascolari.
È necessario, inoltre, rimettere al centro l’idea di una sanità territoriale, di centri di prossimità che supportino le famiglie nelle quali vivono persone, sempre più numerose, con demenza senile, disagio psichico e dove ci sono quelle che hanno un’autonomia fisica ridotta, soprattutto se vivono in condizioni di solitudine. Una rete così permetterebbe agli ospedali di occuparsi dei casi acuti, di quelli più gravi, favorendo, inevitabilmente, la qualità delle cure. Ciò significa ridisegnare i livelli di assistenza, usare la telemedicina e tutte le opportunità offerte dalla tecnologia per alleggerire il Sistema sanitario, incluse quelle offerte dall’Intelligenza artificiale, studiata, compresa, e sempre guidata dall’uomo, a suo servizio.
In questo disegno l’Istituto superiore di sanità, può fare la sua parte, grazie al patrimonio di dati e alle sue competenze sviluppate e cresciute in oltre 90 anni di esperienza. Può essere una bussola in grado di orientare chi deve riformare il sistema per navigare in direzione dell’equità di un sistema di cure che possa assicurare la salute di tutti e per tutti.
* Presidente Istituto superiore di Sanità (Iss)
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