La mamma è una sola, ed è sempre certa. Lo ha ribadito di recente la Cassazione, che con l’ordinanza 511/2024 ha negato la possibilità che un bimbo possa essere registrato in Italia come figlio di due genitrici (una italiana e l’altra statunitense). Un verdetto simile a quello con cui la Corte d'Appello di Milano ha dichiarato illegittime per tre coppie di donne l’iscrizione della doppia maternità avvenuta sul Registro degli atti di nascita perché «il nostro ordinamento non lo prevede».
La vicenda su cui si è pronunciata la Suprema Corte nasce nel 2016, quando le due donne – unite civilmente – avevano dato corso alla fecondazione eterologa negli States, e una volta rientrate in patria volevano essere riconosciute entrambe come madri. Di fronte al rifiuto dell’ufficiale di stato civile di Pisa, il Comune di residenza, si erano rivolte al tribunale della stessa città chiedendo che il diniego fosse dichiarato illegittimo e che l’atto di nascita del bimbo – nel quale si menzionava la sola madre biologica – fosse rettificato con l’indicazione anche della cosiddetta “madre intenzionale”.
In primo grado, i giudici avevano dato loro torto, sostenendo che l’impossibilità al riconoscimento della doppia maternità derivasse dalla legge 40 del 2004, che secondo la revisione operata dalla Corte Costituzionale consente sì l’accesso alla fecondazione eterologa ma solo da parte di persone di sesso diverso. La Corte d’Appello aveva poi ribaltato questa pronuncia, sostenendo che il diritto internazionale rendesse applicabile la legge statunitense in quanto legge patria della madre biologica. Da qui, a detta dei magistrati di secondo grado, sarebbe derivata la doverosità del doppio riconoscimento genitoriale.
Ma ecco che la Cassazione ha fatto definitivamente rivivere il verdetto dei giudici di Pisa, ascrivendo ai giudici d’appello una «evidente violazione di legge». Secondo gli ermellini, infatti, quanto statuito dai giudici di secondo grado «ha consentito la formazione, attraverso un’operazione interpretativa della normativa americana, di un atto di nascita di un bambino nato in Italia con l’applicazione diretta del diritto straniero, laddove ciò non è consentito all’ufficiale di stato civile in ragione del precipuo e limitato esercizio dei poteri di carattere pubblico attribuitigli, da cui esorbitano quelli costitutivi dello status filiationis, status che può conseguire alla diretta applicazione della legge nazionale [...], ove ne ricorrano i presupposti».
In parole povere, secondo i supremi giudici italiani, la Corte d’Appello ha forzato la legge americana, consentendole a torto di regolamentare lo status di un bimbo nato in Italia. Al contrario – e questa è un’importante precisazione che si desume dal verdetto definitivo – non hanno tutela le pretese giudiziarie di chi ottiene un figlio all’estero violando la legge italiana e che poi pretende in patria il riconoscimento di quanto fatto in violazione della nostra legge.
Al tempo stesso, in questi casi la Corte Costituzionale ha più volte raccomandato che non venga leso il miglior interesse del minore a vedersi riconosciuto – anche giuridicamente – il legame di fatto con chi in concreto esercita su di lui la responsabilità genitoriale. Ciò tuttavia non significa che questi ultimi debbano per forza essere riconosciuti genitori nell’atto di nascita. Anzi, dalla Cassazione emerge il contrario: in caso di violazione di leggi sulla genitorialità, la tutela del miglior interesse del minore raccomandata dalla Consulta non può perseguirsi con un certificato di nascita contrario alla legge italiana. Spetterà dunque al legislatore individuare le forme più corrette per armonizzare quanto statuito da Corte Costituzionale e Cassazione.
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