mercoledì 29 aprile 2015
Il 10 maggio scenderanno in piazza per manifestare contro la lentezza del Parlamento. «Non siamo contro il parto in anonimato, ma si rispettino anche i nostri desideri»
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Dagli anni Cinquanta a oggi sono circa 400mila i bambini non riconosciuti alla nascita. La maggior parte sono finiti negli istituti, i più fortunati sono stati adottati. Tanti, tantissimi di loro ce l’hanno fatta. Si sono lasciati alle spalle quell’esordio così complicato e sono spesso diventati cittadini esemplari, a loro volta madri e padri, consapevoli che la più grande fortuna di un bambino è quella di avere due genitori che si prendono cura di lui. Ad un certo punto del cammino, però, buona parte di quei 400mila ha sentito affacciarsi nel cuore non poche domande sulle proprie origini. Perché mia madre mi ha abbandonato? Quali difficoltà avrà incontrato? Sarebbe contenta di sapere che la penso, che la vorrei incontrare, che mi piacerebbe sapere qualcosa di lei? «Non siamo alla ricerca di una nuova famiglia perché – precisa Anna Arecchia, presidente del Comitato nazionale per il diritto alla conoscenza delle origini – la maggior parte di noi proviene da adozioni felicissime. Ma abbiamo questo buco dell’anima, questo bisogno interiore di sapere da dove veniamo, questo sogno di completare la nostra identità, per identificarci in un contesto sociale, in una storia che in qualche modo ci appartiene». Chi potrebbe dar loro torto? Finora in Italia questo desiderio era però destinato, nella maggior parte dei casi, a rimanere lettera morta. La legge sul parto in anonimato impedisce al figlio non riconosciuto alla nascita di sapere qualcosa sulle proprie origini se la 'madre segreta' non ha revocato la sua decisione. Poi, nel novembre 2013, è arrivata la Consulta a dichiarare incostituzionale l’articolo 28, comma 7, della legge 184, quello appunto che garantisce il parto in anonimato. Così, con molta fatica, il Parlamento si è messo in moto per modificare la norma. In bilico tra due richieste in apparenza inconciliabili. Le associazioni delle famiglie adottive, in testa a tutti l’Anfaa, hanno fin da subito alzato le barriere per difendere il diritto del parto segreto.La tesi è lapidaria: se una donna non desidera rendere noto il suo nome, è fondamentale rispettare la sua volontà. In caso contrario – sostengono le associazioni – non solo verrebbe meno il patto stabilito con lo Stato al momento del parto, ma si finirebbe per incentivare aborti e abbandoni nei cassonetti. Non solo – è sempre l’opinione dei rappresentanti delle famiglie adottive – come comunicare a un donna la richiesta di quel figlio avuto in gioventù, considerando che nel frattempo si è rifatta una vita, magari ha marito e altri figli? Una lettera di convocazione del Tribunale non finirebbe per sconvolgere le sue nuove relazioni, creando imbarazzi e difficoltà tutt’altro che trascurabili nei confronti della nuova famiglia, quasi sempre ignara di quel passato di sofferenza? Di tutt’altro parere il Comitato per il diritto al riconoscimento delle origini che il prossimo 10 maggio – non a caso festa della mamma – ha organizzato a Roma una manifestazione di protesta. «Se soltanto il 10 per cento dei figli non riconosciuti, risponderà al nostro appello – riprende Anna Arecchia – potremmo essere in 40mila. Ma non osiamo sperare tanto. Chi ci sarà, potrà comunque testimoniare sia il malessere di tutti per la difficoltà spesso insormontabile di conoscere le nostre origini, sia il nostro scontento per la lentezza del Parlamento, in particolare della Commissione giustizia della Camera, che solo dopo 19 sedute di commissione, sei audizioni con 30 relatori è arrivata a un testo unico. Ma non c’è stato ancora il voto degli emendamenti e – prosegue la presidente del Comitato – non sappiamo quando la proposta potrà approdare all’Aula. E, dopo la Camera, c’è il Senato. Quindi tempi lunghissimi». I figli adottivi che desiderano scoprire il nome dei loro genitori biologici contestano le opinioni delle associazioni riguardo all’aumento degli aborti e degli abbandoni. «I dati dei Paesi che hanno leggi sul diritto alla conoscenza delle origini, dimostrano che non c’è stata alcuna crescita né delle interruzioni di gravidanza né degli infanticidi. Non vogliano cancellare il diritto al parto anonimo, chiediamo metodi delicati e non 'invasivi' per permettere alle mamme di revocare l’anonimato o per chiedere loro se intendano farlo». Altra richiesta, in attesa di una legge adeguata, è quella di uniformare le prassi dei vari tribunali che, sulla scorta della sentenza della Corte costituzionale, stanno già procedendo ad interpellare le madri biologiche. Mentre a Firenze i giudici sono già all’opera e in altri tribunali si segue un vero e proprio vademecum ( Trieste e Torino per esempio), altrove ( Venezia, Milano, Palermo) si continuano a rigettare le istanze costringendo i richiedenti a ricorrere in Appello. Oppure, come accade a Napoli, si congelano la richieste. «Non abbiamo mai conosciuto mamme – conclude Anna Arecchia – che si siano rifiutate, anche dopo tanti anni, di conoscere il figlio abbandonato. Io ho conosciuto mia madre dopo 30 anni di ricerche: un momento che non dimenticherò mai. È come avessi ritrovato una parte di me stessa. Ora vorrei che tante altre persone nelle mie condizioni, provassero quella stessa gioia. Che è anche un diritto sacrosanto».
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