Juliana supera la soglia con passo incerto. Quella porta – lo sa bene – divide la vita dalla morte, ma ormai non c’è più niente da fare: è entrata con un figlio nell’utero, tra poco ne uscirà sola. È il 7 febbraio del 2012, l’ecografia ha fotografato un bimbo di tre mesi perfettamente sano e lei non è mai stata così bella, ma nessuno è riuscito a fermare la decisione di abortire e ora la porta della sala operatoria sta per chiudersi dietro di lei...Venti anni prima Juliana era una bimba, arrivata con i genitori e un grappolo di fratellini quando ancora dall’Albania si sbarcava aggrappati ai gommoni, sempre che l’Adriatico non si infuriasse. E aveva 10 anni quando fu data in affido a Donatella e Mario Garraffo, bresciani, genitori già di due gemelline di 5 e di una neonata. «Per noi è sempre stata nostra figlia – raccontano Donatella e Mario, pasticciera lei, arredatore lui, entrambi sulla quarantina –, così quando ai 21 anni ci ha chiesto di provare a camminare con le proprie gambe e vivere da sola, le abbiamo trovato un appartamentino vicino a noi, con un affitto simbolico perché apparteneva alla parrocchia, e una schiera di amici che l’hanno aiutata ad arredarlo. Il suo sogno? Portare la sua mamma naturale a vivere lì con lei».Ma Cristina, la madre albanese, ne ha viste troppe nella vita, prima un marito che alzava le mani, poi quel viaggio verso l’Italia, qui le tante speranze disilluse e l’incapacità di curarsi dei suoi quattro figli... A Milano ha trovato un compagno e non lo vuole lasciare. «Per Juliana è stato l’ennesimo rifiuto subìto nella vita, così è andata lei a Milano, finché il convivente della madre non l’ha allontanata», raccontano i genitori affidatari. E ad accogliere la ragazza questa volta è un immigrato come lei, anche lui ventenne: inizia così la storia d’amore di Juliana e Ahmed, albanese e bianca come il latte lei, egiziano e scuro di pelle lui, uniti dalla stessa infanzia negata. «A Milano Ahmed l’ha presa con sé ma ci sentivamo tutti i giorni, alle nostre figlie mancava tanto la sorella e lei, pur innamorata, sembrava triste, così siamo andati a trovarli. Non avevo mai visto una cosa del genere...». La "casa" è una stanzetta in subaffitto in un condominio sovraffollato di immigrati, bagno in comune. «Ahmed era gentile e rispettoso, ma non ha voluto assolutamente trasferirsi a Brescia vicino a noi, il suo orgoglio di maschio e di uomo islamico non glielo permetteva. Poi, mentre già stavamo uscendo, le sue parole ci caddero addosso: non glielo dici ai tuoi genitori che aspetti un figlio?».A quel punto, messo da parte lo sconcerto, resta solo la gioia dell’accoglienza: «Le nostre tre figlie si sentivano già zie, noi abbiamo capito che il Signore questa volta ci chiamava così e sapevamo solo che Juliana ci avrebbe avuti come sempre al suo fianco. Tutti». Per tutti intende la grande comunità della parrocchia, il quartiere, persino i clienti della pasticceria («credenti e non credenti»), tutti contagiati dalla misericordia concreta di casa Garraffo. Ahmed e Juliana accettano anche un incontro con il Cav (Centro aiuto alla vita), che grazie al "Progetto Nasko" darà loro un sussidio economico per 18 mesi, e quel giorno è festa grande: «Con le altre tre famiglie di amici che avevano preso in affido i tre fratellini di Juliana, e che a loro volta avevano già tanti figli naturali, ci siamo trovati tutti a cena per brindare al nipotino in arrivo». Ma la verità emerge raggelante a fine festa: alla Mangiagalli di Milano è già prenotato l’aborto, avverrà tra due giorni, il 7 febbraio mattina. «Ci è crollato il mondo addosso, ci sentivamo falliti come genitori, non era questo che le avevamo insegnato in famiglia. Per fortuna quella sera eravamo poi riusciti a farli ragionare, ma già il fatto che ci avessero pensato ci aveva prostrati».La mattina dopo, però, un’altra doccia fredda. Juliana ha gli occhi rossi, è evidente che ha pianto tutta la notte, Ahmed ha cambiato ancora idea. «Di nuovo l’intera comunità si è stretta intorno a loro – continua Donatella –, mancava ancora un giorno all’aborto e la speranza era di far leva su Juliana, in fondo aveva pianto e in pancia quel figlio lo sentiva lei». Ma il 7 mattina la macchina parte per Milano, a bordo i due giovani, Donatella, l’amica Sofia e Stefano, il fratellino di Juliana, il più triste di tutti. Un viaggio con la morte nel cuore, passato a leggere a Juliana le lettere di ragazze come lei che avevano abortito, a pregare, a convincere Ahmed che anche per Allah l’aborto è un omicidio. Juliana non una parola, Ahmed sempre risoluto.All’accettazione della Mangiagalli è un attimo, come togliere un dente. «Eravamo sbalorditi da tutto. Una ragazza piangeva disperata ma la madre, più spaventata di lei, la convinceva a entrare. Nessuno di chi ci ha accolti ha provato a dialogare con Juliana, a sentire le ragioni della sua decisione. Nessuno l’ha aiutata a non farlo, come invece dice la legge 194». I corridoi sono lunghi e tortuosi, la piccola comitiva cammina in silenzio, chiede, cerca, alla fine trova la stanza. La porta che divide la vita e la morte per un essere umano, che non sa nulla e cresce sereno nel calore dell’utero. «Juliana è entrata per prima, io dietro a lei e ho tenuto la porta per gli altri – ricorda Donatella –, ma mi sono accorta che Ahmed non passava, così mi sono girata e l’ho visto piantato in mezzo al corridoio». È la speranza che non muore e Donatella la coglie al volo: «Gli ho preso il viso tra le mani e gli ho promesso: se hai paura, io da mamma ti accompagnerò nella vita». «Càpiti quel che càpiti, questo figlio lo voglio», risponde Ahmed, che si precipita dentro e prende Juliana per un braccio: «Andiamo a casa!».La vicenda non finisce il 18 agosto del 2012, quando Simone viene al mondo, ma lì inizia, con il mare di problemi che nascono da due storie difficili di immigrazione, ma anche con la risposta di una intera comunità che traduce la misericordia in azioni concrete: chi li ospita finché non trovano un tetto, chi li fa lavorare, chi porta culle, seggioloni, abitini. «Quando Simone è nato, all’ospedale di Brescia eravamo così tanti che tutti si chiedevano chi fosse mai quel bimbo». Oggi Juliana ha trovato un lavoretto e Ahmed si prende cura del suo bambino, che ha un nome cristiano ma non il battesimo, perché «il padre vuole che tra qualche anno sia libero di decidere la sua religione e questo è già importante. È un papà attentissimo e non smette di ringraziarci, ha sempre inchiodato in testa che suo figlio poteva essere morto».Ormai è sera e c’è aria di festa perché oggi si cena tutti insieme come una volta. Arriva Ahmed con il figlio in braccio, poi Juliana radiosa, sono stati a Milano a trovare mamma Cristina. La famiglia si raccoglie intorno al tavolo e ringrazia Dio, Ahmed china la testa con loro. Simone sgrana gli occhi e sorride, forse un giorno saprà.