«Il governo ha cercato di presentare questo testo solo come un insieme di misure tecniche destinate ai ricercatori. Ma si tratta di una visione estremamente riduttrice. È invece pienamente in gioco una questione morale e politica di principio per tutta la società». Ad affermarlo è Jean-Marie Le Méné, il magistrato che presiede a Parigi la Fondazione Jérôme Lejeune, organismo di ricerca scientifica che si è imposto da tempo pure per il suo ruolo nella promozione del dibattito bioetico in Francia.
In Parlamento e non solo, l’esecutivo è accusato di aver schivato il confronto democratico. Che ne pensa?Il governo ha chiesto ed ottenuto una procedura di voto bloccato in aula. Le centinaia di emendamenti preparati dall’opposizione non sono stati dunque discussi. I parlamentari della maggioranza hanno preferito concedersi un lungo ponte estivo di quattro giorni. Il governo non ha voluto discutere sulle questioni di fondo, per passare presto ad altri temi. Eppure, la legge di bioetica del 2011 prevede, per ogni nuova evoluzione notevole in materia, l’organizzazione di stati generali aperti a tutta la società civile.
Se da una parte il governo minimizza i cambiamenti, c’è stato nondimeno un voto solenne...È l’ennesima spia di una triste tendenza politica attuale secondo cui ogni novità tecnica è equiparata a un progresso, a condizione che ci sia una lobby per promuoverla. La tecnica s’impone così inesorabilmente, qualunque sia il suo impiego. È un fenomeno che ricorda un po’ i verdetti divini inesorabili delle tragedie greche. In sostanza, si vorrebbe far credere alla società che le evoluzioni tecniche sono indiscutibili. È il caso della ricerca sugli embrioni, che offrirà ai ricercatori nuove riserve di cellule da maneggiare per tentare di costruire modelli di patologie e testare medicine. Il che è di per sé una cosa buona, secondo i diktat della tecno-scienza, questa mistura di scientismo, mercantilismo e capitalismo.
Quali saranno, a suo avviso, i cambiamenti concreti più significativi?I ricercatori non saranno più obbligati a portare prove per giustificare i singoli progetti. L’onere della prova incomberà sull’Agenzia di Biomedicina, la quale potrà limitarsi a verifiche formali sul fatto ad esempio che la ricerca venga compiuta da personale con titoli idonei e via dicendo. Inoltre, si presumerà la disponibilità dell’embrione umano in vista della sua distruzione. In Francia, non avevamo mai assistito a una disposizione positiva del diritto che rende l’essere umano disponibile per scopi di ricerca. Abbiamo dunque oltrepassato il precedente giuridico dell’aborto, il quale viene ancora interpretato come una deroga eccezionale al principio generale del rispetto della vita.
Lei evoca le lobby. Qual è stato il loro peso?La posta economica in gioco chiama in causa le multinazionali farmaceutiche, che hanno sempre promosso posizioni molto liberiste favorevoli all’uso dell’embrione. Lo si era già visto al momento degli Stati generali sulla bioetica. Oggi, i gruppi sembrano mirare ai costi ridotti dell’uso di embrioni umani rispetto all’uso di animali o delle cellule staminali riprogrammate ottenute per la prima volta in Giappone e ricompensate dal Nobel. La politica adotta acriticamente le posizioni delle lobby, giungendo a sostenere che la non autorizzazione equivarrebbe alla morte della medicina.
Riguardo ai nuovi limiti fissati, l’Agenzia di biomedicina potrà esercitare un controllo efficace?Ho fortissimi dubbi in proposito. Una serie di cause giudiziarie ha già dimostrato che l’Agenzia, nel concedere negli ultimi anni le deroghe, non rispettava scrupolosamente le regole fissate per legge. Alcune ricerche denunciate dalla nostra stessa fondazione avevano un puro scopo speculativo, volto cioè ad immaginare modelli teorici, dunque non rispettoso della legge.