martedì 25 giugno 2024
La domanda antropologica è ignorata nel dibattito comune spingendo a vivere in superficie. Ma c’è una risposta cristiana ragionevole. La lectio del segretario di Stato vaticano al forum di "Sui tetti"
Il cardinale Pietro Parolin al festival del network associativo "Ditelo sui tetti"

Il cardinale Pietro Parolin al festival del network associativo "Ditelo sui tetti"

COMMENTA E CONDIVIDI

Pubblichiamo, per gentile concessione di "Ditelo sui tetti", il testo della lezione del segretario di Stato vaticano cardinale Pietro Parolin il 19 giugno a Roma al 1° Festival del network associativo dedicato all"umano tutto intero"

Permettetemi di ricordare innanzitutto l’incontro che avemmo poco più di due anni fa, il primo organizzato dal Network “Sui tetti”, il cui obiettivo, allora come adesso, era quello di porre al centro la questione antropologica, la domanda sull’uomo, nel contesto del “cambio d’epoca” che stiamo attraversando. L’esito di quell’incontro fu l’elaborazione di una Pubblica Agenda, successivamente aggiornata, che ha costituito un efficace contributo al dibattito pre-politico; un contributo declinato in senso coerente all’opzione antropologica di matrice cristiana adottata dalle numerose associazioni che si riconoscono nel Network.

Il contesto dell’incontro di allora era quello dell’uscita dalla crisi pandemica, un tempo che sarebbe dovuto essere caratterizzato dalla ripresa economica e sociale, dopo la stasi forzata per effetto delle misure sanitarie di contenimento del virus; e che invece venne immediatamente compromessa dallo scoppio del conflitto russo-ucraino, avvenuto solo pochi giorni prima. La speranza, coltivata forse frettolosamente e anche un po’ ingenuamente, che la pandemia ci avrebbe consegnato un mondo migliore – richiamando i singoli ad uno stile di vita più essenziale e meno frenetico, nonché favorendo la solidarietà tra i popoli e la crescita della giustizia distributiva tra di essi – questa speranza aveva già cominciato a dissolversi.

In questi due anni le cose non sono purtroppo migliorate. Le crisi internazionali si sono anzi aggravate. Lo scenario bellico si è ampliato tragicamente con l’esplosione del conflitto israelo-palestinese e la guerra “a pezzi”, denunciata da Papa Francesco sin dall’inizio del pontificato, è andata allargandosi e componendosi in un quadro sempre più preoccupante e corre oggi il rischio serissimo di sviluppi imprevedibili e sempre meno ipotetici.

Anche lo stile di vita delle persone non ha acquisito quella profondità e quella qualità che si sperava la pandemia potesse consegnarci come suo positivo effetto collaterale. La vita delle persone è ripresa faticosa e frenetica come prima, se non di più; con tutta l’irrequietezza e le nevrosi che ne conseguono, come d’altronde la cronaca quotidiana non manca di farci conoscere.

In queste circostanze, insistere sulla questione antropologica, per di più indicendo un Festival dell’«umano tutto intero» – riprendendo una felice espressione di san Giovanni Paolo II –, potrebbe sembrare un mero esercizio d’accademia, una riflessione sofisticata, magari riservata a pochi, tuttavia distante dalle urgenze e dai problemi del vivere quotidiano, tanto dei singoli quanto dei popoli che soffrono la violenza, la fame e i molti gravi bisogni generati dalla guerra, dalla povertà, dalla diseguaglianza.

Eppure è proprio in questo contesto che una riflessione sull’uomo, quanto più desueta e anacronistica essa possa apparire, diventa invece ancora più urgente e necessaria. Un primo grave errore sarebbe infatti proprio quello di pensare la domanda sull’uomo come separata e distante dalle domande e dai bisogni relativi alla vita di lui. Non è un caso che la questione antropologica risuoni da secoli, scolpita sull’architrave del tempio di Delfi, nel monito “Conosci te stesso”. La sua centralità e necessità risiedono nel fatto che essa è veicolo di altri interrogativi, che caratterizzano e accompagnano da sempre l’esistenza umana: che senso ha la vita in generale? E la mia vita in particolare? Perché il male e l’ingiustizia? La morte è davvero la fine dell’esistenza individuale?

La domanda antropologica e tutte queste altre, che ne costituiscono il naturale corollario, sembrano però suscitare sempre meno interesse. Lo stesso sviluppo dei diritti umani – che tanto impegna il dibattito odierno – soffre la mancanza di un fondamento solido, la cui carenza espone tali diritti a discipline molte volte incerte e provvisorie, se non ideologicamente orientate.

Venendo a esaminare le cause che sono all’origine di questo “disinteresse antropologico”, il motivo dominante viene rinvenuto nel progresso tecnologico e nella fiducia che l’umanità vi ripone da più di due secoli. In virtù di questo affidamento – che assume le caratteristiche di una vera e propria “fede” – all’aumentare del potere della scienza e della tecnica ha corrisposto, da un lato, la perdita dello sguardo dell’uomo su di sé e sulla propria interiorità e, da altro lato, una crescente identificazione dell’uomo con le opere da lui prodotte.

Alla fiducia nell’uomo, propria della svolta umanistico-rinascimentale, si è così sostituita la fiducia nella macchina da lui creata e, più in generale, nel progresso. Questo transfert dall’uomo a ciò che costituisce il prodotto delle sue mani era stato già preconizzato agli albori della stessa società industriale dagli spiriti più attenti, tra cui il poeta e filosofo Friedrich Schiller che nelle sue Lettere sull’educazione estetica dell'uomo, un trattato politico-culturale del 1795, evidenziava già come l’essere umano, «non avendo mai nell’orecchio che il monotono rumore della ruota ch’egli gira..., invece di esprimere nella natura la sua umanità, diventa soltanto una copia della sua occupazione o della scienza cui attende».

Dalla rivoluzione industriale in poi è stato un crescendo: sempre più l’uomo si è allontanato da Dio, sempre più si è identificato con il risultato delle proprie azioni e sempre più è scivolato (o si è adagiato) su identificazioni parziali, frammentarie, provvisorie e precarie, perdendo una visione d’insieme di sé, capace di unificare tutti gli esseri umani, senza distinzioni di sesso, di età, di razza o di condizione sociale.

Si è verificato cioè quanto il Concilio Vaticano II ha lapidariamente certificato con la Costituzione conciliare Gaudium et Spes, ovvero che «la creatura... senza il Creatore svanisce» (Gs 36). Alla stessa triste diagnosi conciliare – dell’evanescenza della creatura – sono pervenuti anche quanti, non pochi, hanno considerato come il repentino progresso della scienza e della tecnica – non accompagnati da una corrispondente maturazione della capacità morale generale – abbia innescato un pericoloso processo di vera e propria “disumanizzazione”. È di circa un secolo fa la considerazione dello scrittore e drammaturgo austriaco Robert Musil – contenuta nel suo celeberrimo romanzo L'uomo senza qualità (rimasto peraltro incompiuto) – secondo cui «la dissoluzione dell’atteggiamento antropocentrico, che per così lungo tempo ha ritenuto l’uomo il punto centrale dell’universo,... già da secoli sta svanendo e alla fine raggiunge lo stesso io». Questa considerazione, maturata negli anni ’30, in pieno modernismo, non pare purtroppo avere perso attualità. Al contrario, essa sembra avere trovato dei molto più potenti detonatori nel consumismo innescato dal secondo dopoguerra e nella rivoluzione digitale che caratterizza l’inizio del nuovo millennio.

Più la nostra società aumenta il grado di automazione e più assomiglia all’apprendista stregone della famosa ballata di Goethe, il quale si avventura in un incantesimo che non è poi in grado di padroneggiare e le cui conseguenze sfuggono al suo controllo. È in quest’ottica, d’altronde, che possono essere visti e considerati i problemi suscitati dal crescente impiego dell’Intelligenza artificiale, dinanzi alla quale si pone l’esigenza di una vera e propria difesa dell’umano; un argine a quell’intelligenza che l’uomo stesso ha creato e dalla quale si trova adesso a dipendere.

È nel vuoto creato da questo “disimpegno antropologico” che è fiorito, crescendo rapidamente, il neo-individualismo che esalta e assolutizza il principio di autodeterminazione dell’individuo e le cui caratteristiche sono state ampiamente discusse in questi due giorni di Festival. È questo uno pseudo-umanesimo che arriva, in sostanza, a teorizzare una libertà senza responsabilità e diritti senza corrispondenti doveri, fondamentalmente ispirato al modello dell’uomo-Prometeo il quale, imbrigliato dal proprio delirio di autosufficienza, finisce tuttavia con il ritrovarsi irrimediabilmente solo.

Se è senz’altro vero che tutti questi sviluppi siano largamente dipesi dall’incalzare del progresso scientifico e dal fascino di potenza che questo ha esercitato sull’umanità, ritengo tuttavia che la svalutazione della riflessione sull’uomo abbia anche altre ragioni, più profonde e – proprio per questo – prima facie meno intellegibili. La questione antropologica è stata accantonata anche perché essa in fondo – una volta che la si affronti seriamente e radicalmente – mette in evidenza e fa venire alla luce la costitutiva fragilità dell’essere umano in quanto tale; il suo essere non solo una canna ma anche, come suggestivamente dice Pascal, la canna più fragile di tutta la natura.

Quando l’uomo scende nelle profondità del suo essere egli scopre infatti una totale e radicale dipendenza dall’Altro, con la A maiuscola, e dagli altri. Una dipendenza che si traduce nell’insopprimibile bisogno di essere accolto, riconosciuto, apprezzato; in una parola: di essere amato. L’uomo non è, in fondo, che bisogno radicale di amore. Questo bisogno di amore è evidente nei neonati e nei fanciulli. Ma esso rimane lo stesso, per quanto dissimulato, anche in tutte le altre persone: siano essi giovani, adulti o anziani.

Questo bisogno, più di ogni altra necessità legata alle esigenze della vita biologica o psicologica, dice la grandezza della vocazione dell’uomo, ciò che costituisce lo scopo e il fine di tutta la sua esistenza, secondo un’istanza di senso che la sua stessa ragione reclama; ma dice anche al tempo stesso tutta la fragilità, la debolezza e la sua povertà. Andare alla ricerca di sé implica quindi andare a scoprire questa fragilità, seguendo un percorso che l’uomo che si è allontanato da Dio non può intraprendere.

L’uomo senza Dio, infatti, non può stare di fronte a sé stesso, perché stare lì implicherebbe confrontarsi con la propria povertà e con una necessità più grande di lui, rispetto alla quale – con tutto il progresso a disposizione – è incapace di dare risposta. Stare lì implica confrontarsi con le domande più scomode possibili, che nella loro radicalità sono tuttavia imprescindibili se si vuole dare un senso alla propria vita e che, proprio per questo, sono a pieno titolo “secondo ragione”: la domanda sulla sofferenza, sull’ingiustizia e, in generale, sul male, sia quello presente in natura che quello di origine morale; per poi confrontarsi, in ultimo, con la domanda sulla morte.

Ed è così che dietro la fuga dell’uomo da sé, dalla discesa nelle proprie profondità, si cela in fondo la fuga dell’uomo dalla sofferenza, in tutte le sue molteplici declinazioni. Muto e incapace di risposta, l’uomo retrocede dinanzi a essa, preferendo vivere alla superficie di sé e identificarsi nelle cose che fa e in quelle sensibili che lo circondano, con un comportamento e uno stile di vita sempre più “irragionevole”, nella misura in cui cerca di eludere o dimenticare quelle domande.

La questione antropologica, per quanto oscurata e trascurata, non è stata però del tutto dimenticata. Da un lato, essa non si può mai completamente cancellare, perché radicata così profondamente nel cuore dell’uomo da riemergere prepotente nelle vicende della vita, con le domande che ne sono il bagaglio e con le quali ogni uomo è chiamato, tanto provvidenzialmente quanto inevitabilmente, presto o tardi a confrontarsi, anche più volte.

Da altro lato, la domanda sull’uomo è sempre sopravvissuta e rimasta vitale in ambito cristiano, dove è stata affrontata, ripresa e riletta alla luce del cambiamento dei tempi; nel corso delle diverse epoche e anche di recente si è sempre cercato cosa nell’umano resti costante ed essenziale, cosa costituisca il suo fondamento profondo, cosa occorra sempre approfondire, custodire e valorizzare.

Il lavoro e l’impegno profuso dal Network “Sui tetti” è quindi tutt’altro che una riflessione di nicchia e si inserisce invece a pieno titolo in questo solco: mettere al centro l’uomo, la riflessione su di esso e sulle domande di fondo che accompagnano l’esistenza umana, per evitare di seguire le sirene delle nuove ideologie e costruire invece politiche il più possibile veramente corrispondenti a ciò che è umano, al servizio dell’uomo «tutto intero», senza cedere a visioni parziali, provvisorie, secondo le mutevoli mode dei tempi.

A questo scopo occorre impegnarsi affinché l’«eccezione italiana» (nel senso inteso da san Giovanni Paolo II) continui ancora ovvero venga recuperata, qualora si reputi che nel frattempo sia andata perduta, in entrambi i casi promuovendo la visione cristiana sull’uomo con l’entusiasmo e la convinzione di chi sa che proprio questo è l’ambito dove non solo il cristianesimo ha qualcosa da dire, ma in cui ha da dire la cosa più importante, che mai nessuno ha detto prima. Infatti, se la domanda sull’uomo è sempre rimasta vitale in ambito cristiano non è solo perché nessuna filosofia, ma anche nessuna religione, ha mai attribuito all’uomo il valore, l’importanza, la centralità e la dignità che gli attribuisce il cristianesimo, in cui Dio, nella persona di Gesù Cristo, assume la natura umana per unirla alla propria natura divina e così elevarla fino a Sé. La vitalità, tutta cristiana, della riflessione sull’uomo non è solo conseguenza di questo (infinito) valore trascendente della persona umana, ma deriva anche dal fatto che il cristianesimo ha la risposta alle domande che tanto angustiano l’uomo e che grandemente lo scomodano, nella misura in cui lo conducono a prendere contatto con la propria finitudine.

Questa risposta non è un concetto filosofico e nemmeno un’idea, essa risiede nella persona del Signore Gesù Cristo, che il Concilio di Nicea del 325 d.C. indica infatti non solo come vero Dio ma anche come vero uomo. È come vero uomo, infatti, che il Signore assume la condizione creaturale dell’essere umano “tutto intero”, andando al cuore della sua povertà radicale, vivendola fino in fondo, senza scartare nulla, “umiliando” se stesso, “svuotando” se stesso – come insegna l’Apostolo Paolo nel celebre inno ai Filippesi – fino alla morte, e alla morte di croce. È nel Signore Crocifisso che tutta la povertà dell’uomo, tutta la sua miseria, tutto il suo bisogno di essere accolto, compreso e amato, vengono radicalmente assunti da Dio e da Lui trasformati.

Ciò che umanamente rappresenta una situazione di fine, di solitudine, di disperazione, di angoscia e sofferenza, tutte queste condizioni – umanamente miserevoli – diventano invece il luogo dove potere incontrare l’amore incondizionato di Dio, che trasforma la miseria costitutiva dell’uomo nella condizione di possibilità della Sua misericordia.

Se la domanda antropologica viene ignorata nel dibattito comune, così come dalla cultura dominante, non è per cattiveria né per difetto di intelligenza, ma perché nessuno, lasciato a se stesso, con le proprie sole forze, può confrontarsi e misurarsi con la radicale povertà del proprio essere. Si comprende pertanto molto bene come tutti fuggano da queste profondità e si trovino quindi inevitabilmente disorientati, se non disperati, ogni qualvolta la sofferenza appaia nella propria vita. Ed è questa “fuga” che prepara il terreno e apre le porte a quella “cultura dello scarto”, contro la quale più volte si è pronunciato Papa Francesco, la quale educa in fondo a rifiutare radicalmente tutto ciò che nella vita presenti il sapore amaro della sofferenza.

Nel Signore Crocifisso, invece, noi vediamo che quanto c’è di precario e fragile nell’uomo, in ogni uomo, non viene scartato, non viene rinnegato, né disprezzato. Esso viene invece trasformato, per diventare luogo di misericordia: il “dove” interiore dell’incontro tra Dio e l’uomo; il “dove” nel quale Dio assume e sposa la condizione umana in quanto tale, l’umano “tutto intero”, unendolo a sé nel modo più intimo possibile, se addirittura san Paolo associa (nella lettera agli Efesini) l’amore di Cristo per la Chiesa, consumato sulla croce, all’unione sponsale tra l’uomo e la donna.

Ed è così che l’istanza delfica del “conosci te stesso” trova nel mistero pasquale la profondità che cerca e che sollecita al tempo stesso: contemplando il Signore Crocifisso si vede tutta la radicale povertà e miseria dell’uomo – del vero uomo – e, al tempo stesso, l’infinita misericordia di Dio – del vero Dio –; contemplando il Signore Risorto si scopre che la sofferenza, l’ingiustizia e la stessa morte diventano il punto di passaggio, di trasformazione, della vita intera, rivelando la dignità e l’altissima vocazione dell’uomo.

Una sintesi efficace e brillante di ciò la riceviamo, ancora una volta, in uno dei pensieri di Pascal, che ammonisce come «la conoscenza di Dio senza la conoscenza della propria miseria genera l’orgoglio. La conoscenza della propria miseria senza la conoscenza di Dio genera la disperazione. Mentre la conoscenza di Gesù Cristo sta tra i due estremi, perché in essa troviamo Dio e la nostra miseria (n. 527).

È questa conoscenza a rendere l’esistenza umana “ragionevole”, permettendo all’uomo di recuperare insieme all’unità del proprio essere anche l’unità del proprio vivere. Egli non deve fare più esercizio di scarto di ciò che in sé è debole, miserevole, precario o sofferente. L’umano «tutto intero», che il Signore ha assunto identificandosi in esso e portandolo così a compimento, questo umano «tutto intero» è il giovane come l’anziano, il sano come il malato, l’uomo di successo, efficiente, ammirato e stimato, come quello fragile, sofferente, abbandonato e da tutti dimenticato.

Davvero viene da ripetere, insieme a san Paolo, che «non c'è Giudeo né Greco; non c'è schiavo né libero; non c'è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28). Nel Signore Gesù, e solo in Lui, si può davvero essere uno, una cosa sola, «tutto intero», senza scartare, eliminare, cestinare nulla e nessuno. Al contrario, tutto è valorizzato, irrorato dalla vita divina. In questo modo la vita cessa di essere una separazione continua tra ciò che vale e merita di essere vissuto e ciò che non vale e deve essere rimosso. Chi vive così finisce poi per rimuovere sempre di più e trattenere sempre di meno. E quando l’esperienza della sofferenza diventa inevitabile, subentra altrettanto inevitabile la tristezza, se non la disperazione.

Se quindi abbiamo ben motivo, come Chiesa e come cristiani, di insistere sulla questione antropologica, allo stesso tempo però siamo bene consapevoli che la ricchezza di questa visione olistica sull’uomo – per quanto “ragionevole” essa sia – non può essere comunicata per via di ragionamenti o imposta con gli ordinari mezzi di convincimento. L’unica categoria che può mettere l’altro nella condizione di aderirvi, in piena libertà, è infatti quella della testimonianza, che in ambito cristiano consiste nel rendere visibile e accessibile agli altri la bellezza della vita nuova, che è la vita cristiana.

Come ha infatti ricordato Papa Francesco, la Chiesa cresce «per attrazione, e il nostro annuncio comincia oggi, proprio lì dove viviamo... non... cercando di convincere gli altri,... ma testimoniando ogni giorno la bellezza dell’Amore che ci ha guardati e ci ha rialzati e sarà questa bellezza... a convincere la gente...» (Udienza generale dell’11 gennaio 2023).

Testimoniare significa dunque vivere accogliendo tutto come Provvidenza, vivere benedicendo e rendendo grazie «in ogni cosa» (1 Ts 5,18), come l’Apostolo Paolo più volte ci esorta a fare. Questo non si improvvisa. Qui non è possibile mentire né fingere. Chi davvero lo fa diventa risposta vivente all’istanza di conoscenza formulata dall’oracolo delfico e rende presente la bellezza dell’uomo così com’è, la bellezza dell’umano «tutto intero».
* Segretario di Stato vaticano

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: