All’indomani del via libera della Camera dei Comuni inglese alla possibilità di manipolare il Dna per concepire un bambino col genoma di tre persone, il sondaggio online promosso dal quotidiano Telegraph manifesta la netta contrarietà dei lettori: con il 63% dei no e il 32% dei sì, i votanti si schierano in larga maggioranza contro la decisione del Parlamento e non approvano affatto il bambino con tre genitori. La sensazione generale è che anche i meno esperti di biotecnologie abbiano compreso che rimpiazzare il Dna di qualcuno per ricombinarlo a piacimento non scardina solo l’antropologia ma incide sull’essenza stessa della natura umana. La tecnica dei designer babies, come sono stati ribattezzati, prevede infatti di sostituire il Dna mitocondriale difettoso della madre naturale con il Dna di un’altra donna per evitare la trasmissione di malattie genetiche. In questo modo il bambino erediterebbe il 98% del suo patrimonio genetico dai genitori e il 2% dalla donatrice. «Non ingegneria genetica», ma «un azzardo tecnologico dalle conseguenze imprevedibili», ha commentato l’Associazione Scienza & Vita per voce della presidente Paola Ricci Sindoni. Invece di intervenire pesantemente ricondizionando la genetica verso destinazioni ignote, con buona pace del principio di precauzione, non sarebbe meglio concentrarsi su come curare le malattie? «Non c’è bisogno di creare nuove manipolazioni incontrollate della natura. Queste sono fughe in avanti dettate dall’ambizione, e non si sa dove andranno a parare», rileva Carlo Bruschi, genetista molecolare all’Icgeb di Trieste. «Dopo aver detto che è meglio prevenire che curare – annota Bruschi – ora è opinione diffusa che sia più facile inventare piuttosto che guarire, perché cercare una terapia efficace è molto più difficile dell’usare le scorciatoie permesse dalla tecnica». Bruschi contesta i difensori della ricerca a ogni costo: «Non è vero che il giudizio sulle scoperte dipende dall’uso che se ne fa, perché è come per l’energia nucleare: è qualcosa di molto potente che non sempre riusciamo a gestire e controllare. Ora si sta forzando la natura per fare qualcosa che di per sé non farebbe». Qualcuno ha detto che in fondo è come un trapianto d’organo: prendo l’elemento che non va e lo sostituisco... «Ma non è affatto la stessa cosa», specifica Domenico Coviello, genetista, direttore del Laboratorio di Genetica umana dell’Ospedale Galliera di Genova. «Il Dna mitocondriale non lavora da solo, ma è in continua comunicazione e influenza reciproca con i geni contenuti nel nucleo. In questo caso quindi si introduce un genoma esterno che interagisce con il nucleo originario». Senza contare che il momento della sostituzione è diverso nel caso del trapianto e in quello della ricombinazione di cellule, come chiarisce Coviello: «Il trapianto si effettua con un organo che ha una funzione già definita e limitata, per esempio il cuore, in un organismo già ben differenziato. Il Dna mitocondriale della prima cellula invece è un componente che influenza le funzioni dell’intero individuo che si svilupperà». Un altro genetista, Bruno Dallapiccola (Ospedale Bambino Gesù di Roma), parla di «accanimento riproduttivo» e denuncia possibili «problemi di tipo legale» posti dalla «donna potenziale donatrice di questo patrimonio genetico». Si è così disposti ad affrontare «danni superiori ai benefici» anche per effetto dell’«interesse commerciale che sta prevalendo sui valori etici». Ma quale risposta si può dare alla ricerca del figlio sano a ogni costo? Si deve far leva sullo studio di soluzioni terapeutiche: «Nel progetto "Lisetta" che mira a silenziare il gene responsabile della Sindrome di Down – spiega Bruschi – sfruttiamo la ricombinazione omologa naturale per agire sul cromosoma 21, eliminando il centromero e quindi la fonte della Sindrome. Se si decide a priori che la vita possa iniziare solo se è eu, solo se contiene il "bene", allora si nega la dignità della vita a tutti coloro che hanno patologie». «La ricerca fa continui passi avanti – ricorda Coviello –. Pensiamo ai sei bambini guariti da Luigi Naldini dell’Istituto Tiget di Milano: avevano la leucodistrofia metacromatica e la sindrome di Wiskott-Aldrich. Alla base di entrambe le malattie c’è un difetto genetico che si traduce nella carenza di una proteina fondamentale per l’organismo fin dai primi anni di vita. Non sono stati selezionati: sono stati curati».
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