Tra le corsie degli ammalati di Covid, accanto agli infermieri stanchi, ai medici alle prese spesso con un senso di impotenza, c’erano sempre. Con le mascherine, rischiando di farsi contagiare, ma non hanno mai indietreggiato. E così, per i mesi della pandemia, i cappellani sono rimasti spesso gli unici in grado di dare una carezza ai pazienti in isolamento, a sostenere con le preghiere un percorso terapeutico che da solo spesso non può bastare. «Eravamo impreparati non tanto al tipo di servizio quanto alla modalità di rapporto con il malato – racconta don Massimo Angelelli, direttore dell’Ufficio Cei per la Pastorale della Salute –. I pazienti erano in terapia intensiva isolati, i familiari non potevano entrare e sono stati allontanati, i medici erano sottoposti a grandi carichi di lavoro e a forte stress. Il Covid si è presentato con una violenza e una rapidità tali che ci ha veramente messi in difficoltà, bisognava prendersi cura di tantissimi casi contemporaneamente, e spesso a distanza». Così anche la pastorale della salute è stata ripensata in una modalità nuova. «A volte abbiamo usato perfino canali social o anche semplici strumenti multimediali. E poi abbiamo dovuto ripensare i contenuti, ci siamo trovati davanti a una situazione per cui il percorso normale di accompagnamento della persona era impossibile».
Ma superata la fase di disorientamento «ci siamo rimboccati le maniche e abbiamo vestito i panni di sicurezza di tutti gli altri proseguendo il nostro lavoro di vicinanza e prossimità». Anche la pastorale della salute, continua Angelelli, «è rimasta profondamente segnata». La Chiesa, poi «ha vissuto una nuova coscienza». E così «si è anche riscoperta ovunque l’importanza dell’accompagnamento e dell’assistenza spirituale. La domanda di senso di fronte alla malattia si è imposta in tutta la sua vastità». Dai pazienti ai familiari, agli operatori sanitari, è arrivata la conferma che quello dei cappellani è «un servizio imprescindibile tanto quanto lo è il bene più prezioso, ossia la vita stessa e la sua condizione di salute. E’ emersa in tutta la sua chiarezza che la presenza dei cappellani, la loro azione di preghiera e di accompagnamento, integra completamente il percorso medico specialistico e va a cercare la risposta all’unica domanda alla quale la medicina non può rispondere: ossia la domanda di senso». E se i cappellani erano già attrezzati per riuscire a trovare le risposte, il disagio e gli interrogativi degli operatori sempre più stremati non si arrestava più.
«I cappellani sono stati un gruppo molto resiliente, hanno chiamato con grande intensità, ma soprattutto per chiedere un confronto su alcune situazioni – ricorda Tonino Cantelmi, presidente dell’Associazione italiana psicologi e psichiatri cattolici (Aippc) –. Alla fine solo alcuni hanno accettato le 10 sedute di psicoterapia che avevamo proposto, la maggior parte ci hanno segnalato altre persone. Sono stati molto generosi». E quanto fosse grande il bisogno di cura e accompagnamento spirituale durante la pandemia lo sanno bene anche gli operatori delle 230 strutture sanitarie cattoliche che fanno capo all’Aris.
«Abbiamo cercato di rompere la solitudine degli ammalati – racconta il presidente, padre Virginio Bebber –. Il nostro personale ha fatto di tutto per poter dare assistenza, in modo che le persone non si sentissero sole. Per il rischio dei contagi abbiamo bloccato completamente le casa di cura. Abbiamo dato a tutti i nostri dipendenti i dispositivi di sicurezza». Ma il Covid non ha fatto sconti, e chi si è messo al servizio degli ammalati ha pagato le conseguenze. «Abbiamo vissuto il lutto del nostro direttore sanitario Leonardo Marchi, girava molto nei reparti e questa vicinanza l’ha portato ad ammalarsi. Poi c’è stata anche la perdita di una religiosa nella nostra struttura». Ma gli operatori non si sono fermati. Vincendo la paura del contagio. «Siamo stati vicini agli ammalati – ricorda Bebber –. Molti venivano dalle rianimazioni, avevano bisogno di sentire il calore, la vicinanza della persona, un accompagnamento spirituale».
Ma la pandemia ha acuito anche le difficoltà di quanti hanno bisogno di sostegno e assistenza continua. «Noi che ci occupiamo di riabilitazione in età evolutiva abbiamo vissuto immediatamente tutto il disagio di una regione come la Lombardia e di conseguenza ci siamo mossi per modificare la nostra attività e portarla in modalità remoto, anche per la gestione dei disabili – spiega Massimo Molteni, direttore sanitario dell’Associazione Nostra Famiglia, con più 2.300 operatori e 27 centri in tutta Italia –. Per non lasciare nessuno da solo ci siamo inventati le modalità di supporto attraverso la telemedicina. La fragilità complessiva è stata messa in crisi in maniera inaspettata, ma poi si è sviluppato uno spirito di vicinanza e solidarietà sia tra operatori, che hanno lavorato da casa per rimanere prossimi ai bambini, che tra le famiglie. Di fronte a questa situazione tutti hanno tirato fuori risorse, capacità e competenze che non immaginavamo ci fossero».