Con il parere n. 1991/2018, depositato ieri, il Consiglio di Stato ha suggerito alcuni principi con i quali gestire il registro nazionale delle Dat (le Diachiarazioni anticipate di trattamento). L’intervento dei massimi giudici amministrativi era stato chiesto lo scorso 22 giugno dal Ministro della salute, Giulia Grillo, con l’intento dichiarato di «rendere effettivo il diritto dei cittadini di poter fare al più presto le dichiarazioni di fine vita». E delle chiare «istruzioni per l’uso», se così si possono definire, servivano davvero: come più volte sottolineato da Avvenire, la legge 219/2017 che ha introdotto le disposizioni anticipate di trattamento - per la verità già disciplinate dal codice di deontologia medica - non prevedeva un registro nazionale nel quale raccoglierle.
L’esigenza di istituirlo, tuttavia, era emersa pressochè concordemente dal dibattito in Commissione parlamentare igiene e sanità, ma le dimissioni a lavori ancora in corso della relatrice Emilia Grazia De Biasi - rassegnate affinché la legge, sebbene migliorabile, passasse subito alla discussione dell’aula senza correre il rischio d’impantanarsi nella palude di fine legislatura - avevano fatto sì che il provvedimento uscisse monco di questa banca dati. Così, il problema si era posto subito nella sua concretezza. Un esempio: come si sarebbero potute reperire in tempi brevi le Dat di una persona rimasta irreversibilmente offesa da un incidente stradale, avvenuto molto lontano dal luogo di residenza?
La legge approvata dal Parlamento, infatti, prevedeva semplicemente che queste disposizioni fossero raccolte o dal Comune di colui che le aveva rese, oppure "presso le strutture sanitarie che adottano modalità telematiche di gestione della cartella clinica o il fascicolo sanitario elettronico o altre modalità informatiche di gestione dei dati del singolo". Dunque senza nessun obbligo d’informazione.
È proprio per colmare questa lacuna che il Parlamento, al 418° comma della Legge di bilancio, meno di due settimane più tardi aveva pensato di disporre l’istituzione presso il Ministero della salute di «una banca dati destinata alla registrazione delle disposizioni anticipate di trattamento», e di stanziarvi - solo per l’anno in corso - 2 milioni di euro. Ma nulla si diceva di come dovesse operare questo strumento, e il nuovo Ministro della Salute non sapeva come renderlo operativo. Scaturisce da qui il parere del Consiglio di Stato, secondo cui, innanzitutto, questo registro «deve contenere copia delle Dat, compresa l’indicazione del fiduciario, salvo che il dichiarante non intenda indicare soltanto dove esse sono reperibili».
E dopo aver precisato che questo strumento «è aperto anche a tutti coloro che non sono iscritti al Servizio sanitario nazionale», Palazzo Spada chiarisce due importanti aspetti delle Dat. Innanzitutto, la possibilità dell’interessato di «limitarle solo ad una particolare malattia, di estenderle a tutte le future malattie, di nominare il fiduciario o di non nominarlo, ecc.», onerando il competente dicastero della messa a disposizione di «un modulo-tipo per facilitare il cittadino a rendere le Dat.
E poi - passaggio molto delicato - la necessità «che ci sia certezza sulla corretta formazione della volontà del dichiarante», esigenza per esempio tutelabile, secondo i massimi giudici amministrativi, attraverso una specifica previsione "nel modulo-tipo" facoltativo che verrà predisposto dal Ministero della Salute. D’altronde, emerge proprio qui un’altra lacuna della legge 219/2017: che all’articolo 4, comma 1, subordina la redazione delle Dat all’acquisizione (anche) di "adeguate informazioni mediche". Ma che, in concreto, non prevede alcuna verifica al riguardo.
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