Due albanesi, due algerine, tre camerunensi, tre cinesi, nove kosovare, undici rumene, una bosniaca, un’egiziana. E ancora: otto marocchine, sei tunisine, due cubane, due colombiane, quattro turche, una russa, quattro ucraine... Compagine olimpica? Rappresentanza Onu? No, qualcosa di decisamente diverso: sono solo una parte di quelle 78 straniere che, nel corso del 2011, si sono presentate al Centro aiuto alla vita «Marisa» di Trieste chiedendo aiuto, ascolto, sostegno. Non c’è solo la Relazione al Parlamento sulla legge 194 – diffusa la settimana scorsa – che ci parla di aborti e di prevenzione, ma ci sono anche e soprattutto i numeri e le storie forniti dai Cav che operano in tutta Italia per accogliere, rassicurare e assistere migliaia di donne alle prese con una gravidanza "non prevista".
Il ministro della Salute Renato Balduzzi consegnando la Relazione al Parlamento ha sottolineato l’aumento degli aborti effettuati da donne straniere «dovuto al costante incremento della loro presenza nel Paese», e ha parlato di «criticità importante», richiamando in chiusura proprio la specifica attenzione da porre «verso i gruppi di donne straniere a maggior rischio di ricorso all’Interruzione volontaria di gravidanza con specifici interventi di prevenzione che tengano conto anche delle loro diverse condizioni di vita, di cultura e di costumi».In effetti, tracciare una mappa delle gravidanze sospese vuol dire parlare le lingue dell’Est Europa, dell’Africa, dell’America del Sud, dell’Asia. I dati disponibili appaiono preoccupanti. Più di 38mila gli aborti eseguiti da donne straniere in Italia nel 2010: il 34% del totale, con punte ampiamente superiori al 40% al Nord.
«Una madre italiana in difficoltà non è diversa da una madre straniera in difficoltà, sono le possibilità a loro disposizione a renderle differenti», spiega Elisabetta Cioata Burduja, presidente del Cav «S.Filoteia» di Torino che segue in particolare la comunità rumena. «Guardando la nostra realtà – prosegue la presidente – constato che non sono calati gli aborti tra le immigrate e che il primo fattore abortivo non è la povertà, ma l’essere umano: il partner, il datore di lavoro». Le immigrate condividono con le italiane l’incertezza lavorativa, ma, a differenza di queste, scontano la mancanza sul territorio di quella rete, familiare e non, di affetti, relazioni e tutele che hanno lasciato nel loro Paese d’origine. Spesso insieme ad altri figli. «Per una donna che ha un lavoro, seppur precario, una gravidanza è una circostanza pericolosa», chiarisce Ettore Henke, per vent’anni presidente del Cav di Trieste e autore di un dettagliato studio statistico sulle attività annuali del centro. Nel rapporto, alla sezione «Difficoltà dichiarata alla gravidanza», i numeri più rilevanti sono associati a tre voci: difficoltà economiche, disoccupazione, mancanza di un alloggio. «Ma non è una questione meramente economica – dice Henke –, la verità è che qui non le aiuta nessuno e si sentono troppo sole per farcela. Hanno bisogno di accoglienza, di attenzione».
Ancora una volta a fare la differenza è la capacità di ascolto, che precede sempre l’aiuto economico, dimostrandosi spesso, per la scelta della donna, l’argomento più efficace e rilevante. «Se cominciassimo il colloqui solo proponendo gli aiuti materiali – conferma Elisabetta Cioata – le donne non si sentirebbero più sicure e meno sole. Hanno bisogno di parlare, di sapere di esistere». Parlare, comunicare, condividere. Analizzando i percorsi che portano le donne straniere a rivolgersi ai Cav si scopre l’esistenza di un diffuso "passaparola" che, per una volta, non veicola prodotti abortivi illegali ma possibilità di scegliere per la vita. Lo precisa bene Anna Spurio, presidente del Cav Roma Palatino: «Da noi arrivano in ugual misura italiane e straniere, e tutte portano con sé un’immensa sofferenza, soprattutto quando ci "scoprono" dopo aver già abortito».
Le donne che arrivano a un centro di assistenza dopo un aborto sono le più fragili. Verso di loro è necessario essere ancora più sensibili, sgombrando il campo da ogni giudizio e confortando un dolore senza fondo: «Tra le donne che si rivolgono a noi – racconta la Spurio – c’è una grande consapevolezza di quello che stanno per compiere o che è già successo. Nessuna di loro pensa che in grembo vi sia solo un grumo di cellule, ma un bambino. Il suo bambino». Qualcosa è cambiato, negli anni? La risposta è unanime: «Non molto. Negli ospedali c’è sempre la fila per le Ivg, e molti sono gli aborti che sfuggono alle rilevazioni con il diffondersi della pillola del giorno dopo e dei cinque giorni dopo».La capacità di porre un argine a un fenomeno che rischia di essere fuori controllo passa anche attraverso la formazione e il coinvolgimento di nuovi volontari, la promozione delle buone pratiche, l’interazione con la società. A Trieste hanno stipulato una convenzione con la Facoltà di Psicologia, mettendo a disposizione la sede del Cav per il tirocinio degli studenti. La reazione dei ragazzi? Sempre la stessa: «Ho scoperto un mondo di cui non sospettavo l’esistenza».