In Europa tutto ha avuto inizio. Scoperte, invenzioni, rivoluzioni. Anche la globalizzazione è nata qui, con la caduta del Muro di Berlino. Ma oggi, da questa parte dell’Atlantico, ci troviamo in mezzo a una guerra commerciale tra Est e Ovest del pianeta e non abbiamo ancora trovato il modo di preservare la pace sociale, i diritti basilari nel lavoro e nei servizi alle persone, e – in fondo – la stessa democrazia.
I prossimi cinque anni di legislatura comunitaria e quelli successivi, che dovranno esserci, sono costituenti, necessari e decisivi per arrivare finalmente a una federazione di Stati, che oltre alla pace garantisca il benessere collettivo delle persone e sia "motore" di giustizia e di libertà nel mondo.
È questa la posta in gioco della contesa tra europeisti e nazionalisti che vede nelle urne comunitarie del 2019 solo il primo passo, che sarà poi seguito da qui a novembre dalla nomina dei massimi vertici della Ue, Banca centrale europea compresa. Eppure, ancora oggi, nessun europeo ha ancora capito qual è la vera faccia dell’Unione. Gli Stati Uniti hanno Washington, Lincoln, Hamilton e una galleria di grandi volti e una serie di "fasi propulsive" che arriva – pur con momenti di ripiegamento, come l’attuale – sino ai giorni nostri; noi invece ci aggrappiamo ancora e sempre ad Adenauer, Schuman e De Gasperi, a Spinelli e a Monnet. Ci siamo fermati ai libri di storia. Manca una bussola.
La vera faccia dell’Europa di oggi è quella della Germania, che ha avuto dalla Ue e dall’euro quasi tutto, diventando forza egemone nell’Unione, ma è anche il volto antico della Grecia e del suo popolo, trascinato in una drammatica crisi economica e sociale perché si è deciso di far pagare fino in fondo i debiti, soprattutto ai poveri, per "salvare" l’adesione all’euro e presidiare la moneta unica. Nessuno, soprattutto gli europeisti che non sono stati sinora in grado di riformare l’Europa quando serviva, sono stati capaci di spiegare questo Giano bifronte a 300 milioni di elettori. Una colpa seria, che ha alimentato l’euroscetticismo perché c’è una bella differenza tra stare in un club al tavolo dei grandi e bazzicare le cucine.
Dunque, non è un caso se non pochi europei si mostrano sempre più indifferenti alle sorti dell’Unione. Più cresceva l’integrazione, minore diventava l’interesse di gran parte dei cittadini. Solo un terzo della popolazione ha un’opinione positiva del Parlamento, mentre la maggioranza relativa (43%) è neutrale, se ne disinteressa, o nella peggiore delle ipotesi ne auspica la fine. D’altronde la crescita del benessere diffuso si è fermata e le riforme pure. Se dal 1957 al 2007 la ricchezza delle famiglie è cresciuta di ben quattro volte, negli ultimi dieci anni si è allargato a dismisura lo spread sociale con l’80% della nuova ricchezza che va al 15% della popolazione più agiata. I salari sono fermi al 2008, 23 milioni di europei tra i 15 e i 34 anni non studiano e non lavorano e ben 118 milioni di persone sono a rischio povertà o esclusione sociale. E vanno in scena decine e decine di inutili vertici, che nulla decidono.
Le riforme da fare sono, invece, chiare. Oltre alla necessità di completare l’Unione bancaria e di varare la tutela centrale dei depositi, che va di pari passo con la vigilanza della Bce, l’Unione fiscale dovrebbe appianare le varie disparità di trattamento offerto alle multinazionali nella stessa Eurozona e ampliare il bilancio pluriennale a 1.150 miliardi di euro, per irrobustire l’azione dell’Ue nella lotta ai cambiamenti climatici, nel governo dei flussi migratori, nella protezione delle frontiere esterne, nel varo della web tax. Tutte misure orientate a ridurre le disuguaglianze. Sono rimasti lettera morta anche l’istituzione di un bilancio dell’Eurozona e di un ministro unico del Tesoro, il debito comune, la revisione della politica industriale transnazionale. E soprattutto manca del tutto una politica sociale per i giovani che offra qualcosa in più dell’Erasmus, che li coinvolga davvero nella costruzione europea. Non saranno certo studenti per sempre.
Non sono bastati nemmeno gli obiettivi raggiunti in parte o in toto, quali il bilancio in chiaro-scuro del Piano Juncker da 400 miliardi di euro di investimenti, che non ha dato la fiammata sperata all’economia europea, il salvataggio della Grecia (ma a che prezzo per Atene), della Spagna, del Portogallo e dell’Irlanda, la cancellazione dei costi di roaming, l’intesa di Parigi sul clima, la saggia e coraggiosa direttiva sul copyright e alcuni accordi commerciali, monchi di quello più arduo e importante, comunque stoppato per volere di Trump, con gli Stati Uniti.
Serve più Europa nella società e nelle sue periferie e meno Europa dove cavilli e procedure e dirigismi invadono competenze che dovrebbero essere solo nazionali. L’Europa deve rispettare, semplificare e migliorare la vita di tutti e non di pochi, deve far capire che serve anche alla quotidianità della gente. Questa è la sfida da cogliere e a cui rispondere, come avvenne a Roma nel 1957.