Via quei 21 grammi in men che non si dica
mercoledì 25 novembre 2020

Finiranno certamente nei cataloghi delle 'bellezze' di Pompei i due uomini soffocati dall’eruzione del Vesuvio nel 79 dopo Cristo, e ritrovati adesso. Come emblema della strage sono perfetti. Mirabili. C’è già chi li chiama «tesori». Eppure il primo senso che dovrebbero incutere è lo spavento. Il calco della loro morte-in-atto è come una fotografia istantanea, non li vedi morti ma li vedi morire. Stanno morendo in questo momento.

Qualcuno ha 'pesato' il corpo di un uomo mentre sta morendo e ha scoperto, o così ha dichiarato, che nel momento esatto della morte, quando l’anima si stacca dal corpo e se ne va, il corpo perde 21 grammi di peso, e quello è dunque il peso dell’anima. Se le cose stanno così, questi due uomini, un adulto e un giovane, soffocati dal materiale gassoso, polveroso e bruciante sprigionato dalla bocca del vulcano, sono fissati e conservati nel momento in cui perdono quei 21 grammi. Sono perciò testimoni 'preziosi'. È giusto guardarli restandone incantati. Saranno inclusi nei prossimi giri turistici di Pompei, già così ricchi d’incanti. Ma l’incanto è il primo sentimento che devono ispirare? L’incanto è per la bellezza, la perfezione, il fascino. Io li guardo, questi due corpi, e non riesco a reprimere un senso di disperazione, come di fronte a uno spettacolo terrificante, che ricorderò per il turbamento che mi dà. Il miglior commento che ho letto è quello di Marina Corradi, che qui su 'Avvenire' parla di tragicità.

I due sono un adulto sui quarant’anni e un giovane sui venti. Del giovane si dice che ha le vertebre deformate, come conseguenza dei lavori massacranti che faceva, superiori alle sue capacità di sopportazione. Dal che si deduce che era uno schiavo. Vorrei sapere come quelle vertebre risultano deformate, se è un dato ricavabile dal calco in gesso, se un esperto ha intravisto la deformazione attraverso il gesso come un medico la sente attraverso la cassa toracica, questo non lo so, ma devo accettare la diagnosi che vedo su tutti i giornali, e quella diagnosi disturba la mia visione del gruppo, leva alle due figure il carattere estetico della bellezza, per cui verrebbe spontaneo anche a me definirli due 'tesori', e fa spazio a un senso di angoscia, con cui condivido la sorte del giovane schiavo, così sfruttato nei suoi lavori servili da averne lo scheletro deformato.

Tutti cerchiamo di capire perché siano morti in quella posizione, cosa cercavano di fare. Il giovane schiavo patisce uno strazio in più, il fuoco gli piove addosso in tutte le forme, aria polvere fango sassi pietre, ma è così abituato allo strazio che si lascia andare con una composta rassegnazione, il corpo steso dritto, le gambe abbandonate, un braccio sul torace e uno sul ventre. La morte del padrone è rabbiosa, si agita con le mani e con la testa e scalcia con le gambe in tutte le direzioni, anche da questa protesta si vede che è un padrone, si ribella e vorrebbe salvarsi. Muore tra le convulsioni, con la testa rovesciata all’indietro. La morte fissa le convulsioni, le convulsioni scavalcano la morte, continuano nell’aldilà. È bello? È tragico. È bello il 'Galata morente'? Non mi comunica bellezza, comunica strazio. Sta morendo, lontano da casa, è stato colpito nel duello mortale, la sua anima se ne va, lui china la testa e chiude gli occhi, esce dal nostro mondo, non gl’interessa più. Così questi due uomini fulminati dal vulcano a Pompei: i turisti che li visiteranno nei secoli esprimeranno gridolini di gioia perché ci vedono la bellezza del documento autentico, ma dovrebbero vederci anche lo spavento della morte che si compie in men, molto men, che non si dica.

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