La casa brucia e dentro si litiga per i soldi. Rappresentata così, l’Europa politica non offre la sua migliore narrazione ai cittadini che guardano alle prossime elezioni per il Parlamento di Strasburgo. Ma se il fuoco è reale, sia per la protesta di piazza a Bruxelles degli agricoltori contrari al piano verde dell’Unione sia per i bombardamenti in Ucraina, l’esito del vertice straordinario dei capi di Stato e di governo va raccontato in modo più positivo. È bastata una mattina – preceduta invero da un’intensa negoziazione - per sbloccare il pacchetto di aiuti da 50 miliardi destinato a Kiev in quattro anni, finora fermato dal veto ungherese. Il premier Viktor Orbán ottiene qualcosa in cambio, certo, ma il messaggio principale che arriva dalla Ue è che la sua affidabilità e la sua credibilità non sono perse di fronte alla crisi bellica e umanitaria più grave della storia recente, che si sta consumando da ormai due anni nel cuore del Continente. Era necessario dare un segnale e, soprattutto, mettere in movimento la prima tranche di finanziamenti, annunciata per ora all’inizio di marzo. Il contesto in cui si colloca il braccio di ferro finalmente risolto è quello di un Paese, l’Ucraina, dissanguato dal conflitto e a rischio di tracollo economico. Le industrie sono in parte distrutte, le infrastrutture danneggiate, i raccolti agricoli ridotti e l’export difficile (anche se funziona il corridoio aperto nel Mar Nero), c’è stato un esodo di popolazione, molti uomini sono al fronte… I fondi europei servono quindi a pagare i salari dei dipendenti pubblici, le pensioni e altre poste del bilancio in un contesto finanziario segnato da Pil in caduta e inflazione in salita. I miliardi di euro stanziati sono quindi vitali per evitare che il Paese invaso dalle Forze armate di Vladimir Putin alzi bandiera bianca.
La grande soddisfazione del presidente Volodymyr Zelensky esprime l’importanza del passaggio. Ma come risulta riduttivo sottolineare la lite con Budapest, è miope vedere solo il positivo della giornata senza considerare tutto quello che non ha funzionato e che resta da fare. Innanzi tutto, Orbán ha ottenuto che i “suoi” contributi non vadano a Kiev e poi una revisione delle condizionalità sullo Stato di diritto, ovvero le violazioni alle norme dei Trattati che il governo magiaro sta pagando con il congelamento di 11 miliardi europei (altri 10 sono stati nuovamente concessi alla fine del 2023, in cambio del via libera alla procedura di adesione dell’Ucraina alla Ue).
Può l’Europa permettersi di avere al proprio interno un semi-alleato del Cremlino che usa il ricatto del voto contrario, quando è richiesta l’unanimità, per sabotare scelte sgradite e guadagnare benefici indebiti al proprio Paese? La moral suasion degli amici, in prima linea la nostra premier Giorgia Meloni, o addirittura la minaccia di “rappresaglie” economiche poco istituzionali (come si è fatto balenare informalmente alla vigilia della riunione di ieri) non possono essere la regola per portare l’Unione a essere una protagonista tempestiva ed efficace sullo scacchiere geostrategico mondiale in continua ed esplosiva evoluzione. Una volta di più emerge la necessità di una semplificazione delle procedure e delle decisioni, con l’introduzione di maggioranze qualificate anche per le materie più delicate. Si salda a tutto questo il compito di provare a fermare il conflitto nel cuore del Continente. Senza una politica estera e di sicurezza davvero comune e integrata, sarà un’impresa difficile accordarsi e coordinare le sanzioni a Mosca (che infatti non hanno dato i frutti sperati), i rifornimenti alla resistenza di Kiev e le iniziative diplomatiche al fine di portare al tavolo le due parti per discutere finalmente di una pace giusta. Il finanziamento all’Ucraina è un’iniziativa che rafforza la vocazione umanitaria dell’Unione e mantiene gli impegni assunti con il popolo finito sotto attacco di Mosca. Non rappresenta però che un ulteriore e doveroso passo in un percorso che va coperto molto più rapidamente.
Il presidente americano Joe Biden sembra determinato a confiscare decine di miliardi di depositi russi sequestrati per girarli all’Ucraina come risarcimento. Bruxelles non vuole compiere questa mossa unilaterale che costituirebbe una violazione della legalità internazionale. È necessario, tuttavia, fare i conti con il possibile sganciamento Usa dal fronte orientale conseguente a una vittoria elettorale di Donald Trump a novembre. Come risponderemo alla drastica riduzione dell’appoggio statunitense? Dove troveremo le risorse? Come gestiremo la crisi in autonomia? Domande da porsi con urgenza. Auspicabilmente, trovando adeguate risposte che non passino da trattative di piccolo cabotaggio con membri riottosi e di vista corta. Perché la casa brucia.