Nessuno sceglie di nascere a Gaza. Pochi di coloro che ci vivono vorrebbero restarci. E chiunque sia stato nella Striscia (chi scrive diverse volte, una delle quali durante l’operazione Margine di protezione del 2014, quando i carri armati israeliani entrarono per la prima volta a Gaza City), sa che non tutti vogliono uccidere o farsi uccidere seguendo Hamas.
Ma che cosa potrebbero fare, se il Movimento Islamico di Resistenza (Hamas è l’acronimo) controlla ogni euro, ogni posto di lavoro, ogni licenza, ogni permesso? Già nel 2006, quando pure andò al Governo dell’Autorità nazionale palestinese, Hamas aveva raccolto non più del 44% dei voti (Al-Fatah il 41%) e 74 seggi sui 132 del Consiglio legislativo. Un successo, non un trionfo, con una forte concentrazione dei consensi appunto nella Striscia di Gaza dove poi, nel 2007, Hamas ha conquistato con le armi
il dominio assoluto. E se nel 2006 Israele non avesse vietato il voto ai palestinesi profughi negli altri Paesi arabi, forse il risultato sarebbe stato ancora diverso. Questo ci serve per ricordare che, accanto ai civili israeliani uccisi in questi giorni e in tanti anni di violenze, vittime del radicalismo palestinese sono i palestinesi stessi. Per almeno due ragioni. La prima è che, dal 1948 a oggi, non c’è mai stato un caso di azione armata palestinese che abbia migliorato le condizioni di vita dei palestinesi o reso più agevole e proficua l’azione politica dei loro dirigenti. Sempre il contrario. E non è certo un caso se, al di là dei rituali cortei e di qualche bandiera, la gente della Cisgiordania non ha mosso un dito per supportare Hamas.
La seconda ragione riguarda le divisioni interne dei palestinesi e, in particolare, il dualismo tra Hamas e Al-Fatah. Dopo la Battaglia di Gaza del 2007, che di fatto sancì la spartizione del territorio tra i due movimenti, la Cisgiordania non ha più avuto elezioni. Il presidente Abu Mazen ha sfruttato lo spauracchio di Hamas per rinviare sine die qualunque forma di consultazione popolare e, di fatto, garantire a sé stesso e alla sua cerchia di notabili un potere perenne. Una forma molto mediorientale di immobilismo, un apparente torpore che nasconde un costante adattamento.
E infatti Abu Mazen e i suoi, che nel 2020 avevano definito gli Accordi di Abramo firmati da Bahrein ed Emirati Arabi Uniti “una pugnalata alla schiena”, hanno evitato di attaccare in modo frontale le trattative tra Israele e Arabia Saudita, cercando piuttosto di ottenere da Netanyahu e dagli altri attori concessioni concrete: maggiore libertà di circolazione in Palestina, un freno agli insediamenti, la riapertura dell’ambasciata palestinese a Washington, fondi dall’Arabia Saudita. E qualcosa si stava muovendo: poche settimane fa lo stesso Netanyahu, facendo infuriare i ministri dell’ultradestra del suo stesso governo, aveva approvato una fornitura di armi alle autorità della Cisgiordania, che avrebbero dovute usarle per rimettere ordine nei quartieri di Nablus e Jenin, dove i radicali armati sono insediati. Tanto che nelle prime ore dell’attacco contro Israele, i comandanti di Hamas hanno dichiarato di voler prendere il potere anche a Ramallah, la “capitale” della Cisgiordania.
C’è dunque un rapporto tra Netanyahu e Abu Mazen. Ma c’è anche altro. I due vecchi leader (Abu Mazen ha 87 anni, Bibi è di gran lunga il premier più a lungo in carica nella storia dello Stato ebraico) sono legati anche da una maledizione comune. L’uno e l’altro hanno provocato, o non hanno saputo impedire, la profonda spaccatura della propria società. Dei palestinesi si è detto, per Israele basterà ricordare le massicce mobilitazioni dei mesi scorsi contro il governo.
Entrambi hanno fatto la voce grossa, Abu Mazen fomentando gli spettri di Hamas e Netanyahu potenziando la peggiore destra israeliana, dovendosi poi adattare a politiche assai più furtive e modeste. Entrambi hanno promesso tutto per raccogliere poco o nulla: il progetto Palestina non riesce a decollare, la sicurezza che Netanyahu garantiva agli israeliani si è dissolta in un attimo. Sia Abu Mazen sia Netanyahu, insomma, sono leader a fine corsa. E le stragi di questi giorni dimostrano che, con loro, è diventata insostenibile una versione del rapporto tra palestinesi e israeliani fatta solo di conflitto, odio, contesa, violenza.
È ora di guardare oltre questi leader, di esplorare le possibilità che pure in questi tempi oscuri l’una e l’altra società possono produrre. Le parole più sagge sono arrivate da Ami Ayalon, l’ex capo dei servizi segreti interni di Israele. « Dovremmo cambiare totalmente la nostra politica e trovare un partner tra i palestinesi che accettano le iniziative di pace e vogliono discutere con noi la realtà di due Stati… Se non lo facciamo assisteremo a una recrudescenza della violenza… Persino oggi Israele rifiuta di ammettere che i palestinesi sono una nazione… lo sviluppo economico non è sufficiente per loro. Vogliono la libertà, la fine dell’occupazione». Si riparte da qui. O non si ripartirà mai.