Sono crollate le chiese. Le torri. Le rocche sono ferite. Insieme alla pietà destata dalle morti innocenti, e allo scempio subito dai luoghi elementari del vivere – la casa, il cortile, la cucina…– i cuori di molti sono rimasti attoniti nel vedere mutilati e a volte feriti a morte le chiese centrali dei paesi, o certi piccoli castelli. Come se la perdita di quei segni che eran lì da prima di noi ed erano i segni di riconoscimento dei luoghi, di quel paese o di quell’altro, di quel borgo o di quell’altro, ci avesse lasciati più soli, più sperduti. Le chiese ferite colpite dal terremoto sono il segno stesso della grande ferita. Sono la materia del nostro grido. Il muro della nostro dolore duro. E anche chi in chiesa non ci andava – in una terra mai tenera con i preti e i cattolici – ora guarda quei monconi, quei muri precipitati con una tristezza infinita. Con una profonda partecipazione. Perché i segni comuni, anche quando non sembrano importanti, lavorano tra noi. Ci «legano» in comunità. Rendono «nostre» certe terre, certe strade. I segni lasciati da generazioni prima di noi, da una folla spesso quasi tutta perduta nell’oblio, lavorano per tenerci insieme. Anche quando appaiono muti, hanno una speciale eloquenza che parla ai cuori.
E se il cuore era distratto e non li considerava, ecco, quando si vedono questi segni feriti, distrutti, allora il cuore se ne accorge amaramente. E si sente colpito in qualcosa di intimo. Di radicale. Non erano solo muri. Non erano case di qualcuno. Erano muri, case, segni per tutti. Perderli sembra una perdita di qualcosa di definitivo. Si resta affranti. E in molti solo ora si accorgono di quanta ricchezza c’era anche in povere chiese di borghi secondari. Ricchezza non di addobbi o di opere – anche se in alcuni casi non mancavano – ma ricchezza di senso. Di eredità. Una ricchezza incalcolabile. Ora lo vediamo mentre ammiriamo tristi quei monconi, i muri feriti, le torri mutilate. Forse non ce ne accorgevamo più. Eppure l’Italia ha questi segni ovunque. Segni di quel che i nostri avi volevano lasciare come segno del senso della loro esistenza. Chiese, per pregare, per guardare in faccia Dio. E castelli, per governare le difficili cose umane. Noi cosa lasceremo?
Se lo chiedeva negli anni ’30 il grande poeta T.S. Eliot, non a caso in un periodo di crisi economica grave come l’attuale: cosa lasceremo come monumento dei nostri giorni, un migliaio di palline da golf perdute? Carte di giornali stracciate? Migliaia di video che parlano ciascuno la propria isolata lingua? È stato detto di recente che la nostra generazione potrebbe forse lasciare qualche grattacielo e qualche stadio come segno del proprio passaggio sulla terra. Ora che uno sciame malefico di tremori e sussulti ci ha portato via i segni del passato, sentiamo un po’ più di vuoto alle nostre spalle ma sentiamo anche più vuoto davanti a noi.
Perché senza le chiese, senza i castelli, che paese sarebbe il nostro? Che paese potrebbe essere? Si tratta di ricostruire, dunque. Come hanno già richiamato tanti esperti. E si usi questa occasione per comprendere da dove riprendere la lena per la costruzione. Quando viene giù il segno della nostra civile e antropologica appartenenza a un luogo e a un popolo, infatti, occorre guardarsi dentro. E chiedersi: dove troveremo altre linfe per costruire e rialzare segni che abbiano quella forza? Dalla risposta a una domanda del genere dipende la vera ricostruzione, il vero medicamento delle ferite profonde. Intanto si ammiri in silenzio quel che avevamo: chiese, castelli e tutti i segni che senza sfarzo, con una specie di umile, muta presenza hanno fatto di noi quel che siamo.
E quel che saremo, a meno che non si sia perduta, nella nostra distratta supponenza, l’umile forza dei nostri avi, la loro sfrontata, dolcissima pietà, la loro dura tenacia. A loro, oltre che a noi stessi e ai nostri figli, dobbiamo l’impegno di ricostruire, mentre gridiamo o silenziosi gemiamo di fronte alle rovine, ascoltando nel cuore un antico e futuro no, «morte non avrà dominio».