La questione è sempre la stessa. Affinché integrazione non significhi colonialismo culturale è necessaria un’interazione tra culture, tra mores diversi. Una lenta e sapiente contaminazione di costumi. L’umanità è sempre andata avanti così. Ma fino a che punto tutto ciò è possibile senza che l’accettazione di costumi diversi intacchi i principi costituzionali di dignità della persona, uguaglianza e libertà?
Una sentenza della Corte d’appello di Torino ha recentemente assolto i genitori Rom dal reato di maltrattamento delle figlie (percosse abituali ma anche percosse alla moglie in presenza delle minori – c. d. “violenza assistita”) in quanto gli imputati ritenevano che la violenza fosse “l’unico strumento disponibile per garantire ordine e disciplina in seno alla famiglia e nei rapporti tra le bambine” e in quanto il contesto (famiglia numerosa in un campo nomadi, «fisiologica esuberanza» delle bambine) fa sorgere dubbi sulla coscienza e volontà di sottoporre le figlie a qualsivoglia maltrattamento. Il substrato culturale avrebbe insomma indotto nei due genitori imputati una mancata consapevolezza della propria condotta oggettivamente violenta.
Non c’è nulla di totalmente nuovo. Se si vanno a rileggere le discussioni che negli anni ’60 accompagnavano l’applicazione delle norme (allora ancora in vigore!) del ratto a fine di matrimonio e del matrimonio riparatore - soprattutto quando questi fatti venivano commessi nelle città del nord da giovani immigrati dal meridione – si vedrà che gli argomenti usati pro o contro quegli articoli ritornano nelle nostre discussioni di oggi.
Ai tempi in cui tutto era più semplice, vigeva l’antico e insormontabile brocardo ignorantia legis non excusat, scolpito nell’articolo 5 del codice penale: «nessuno può invocare a propria scusa l’ignoranza della legge penale». Ma oggi le cose sono più complicate, perché la realtà (e spesso le norme) sono più complesse di come il Legislatore di un secolo fa aveva immaginato. La regola dell’articolo 5 può avere un temperamento quando la persona si è trovata in una situazione di “inevitabile ignoranza” del diritto. Vale a dire: quando vi sono divieti non riconoscibili e sanzioni non prevedibili. Così ha detto, nel 1988, una sentenza della Corte costituzionale.
Ma queste eccezioni possono valere solo se l’imputato si trova in una totale mancanza di socializzazione (la romanzesca ipotesi dell’uomo vissuto sempre nella giungla) o quando il precetto legislativo sia totalmente oscuro. Non si può dire che questo sia il caso di nomadi che ben conoscono il contesto sociale in cui le proprie comunità operano. Né possono considerarsi astrusi precetti assai elementari che vietano di usare violenza.
Da anni si discute del trattamento che devono avere i c. d. “reati culturalmente orientati” (ad esempio, minori costretti all’accattonaggio, matrimoni poligamici, mutilazioni genitali femminili) quando sono commessi da persone provenienti da Paesi in cui queste condotte sono ammesse. È noto, ai lettori di “Avvenire”, il confronto tra il modello multiculturalista anglosassone che, in nome di una uguaglianza sostanziale, tende al riconoscimento e a un diverso trattamento di culture diverse (i britannici Sharia Councils ne costituiscono l’espressione più ardita) e il modello assimilazionista, tendente ad una omogeneità culturale tra i residenti su uno stesso territorio e dunque alla rigida affermazione di regole valide per tutti. Basti qui ricordare che il fattore culturale, secondo alcuni, dovrebbe essere considerato come un’attenuante o addirittura far venir meno il dolo (come hanno sancito i giudici di Torino nel caso di maltrattamenti imputati ai genitori).
Il Legislatore italiano, negli ultimi decenni, non ha attenuato il rilievo penale di certe condotte. Al contrario, le ha più severamente punite.
Si pensi al reato di impiego dei minori nell’accattonaggio (art. 600 octies c.p., introdotto nel 2009) o alla ridefinizione dei reati di riduzione in schiavitù e di tratta delle persone (rimodellati, nel 2003, per colpire lo sfruttamento organizzato di minori e di donne avviate alla prostituzione).
La Cassazione ha più volte negato che reati di maltrattamenti in famiglia siano esclusi (o comunque puniti meno gravemente) a causa delle condizioni socio-culturali dell’imputato intriso della cultura di “padre-padrone”. Ed è importante ricordare come, in una sentenza del 2013, l’esclusione viene motivata: l’imputato non può invocare la propria ignoranza della norma perché la sua condotta è caratterizzata da “palese violazione dei diritti essenziali e inviolabili della persona, quali riconosciuti e affermati dalla Costituzione”. Ancora una volta la Costituzione del ’48 è un baluardo insuperabile. Ci sembra, questa, la linea da seguire.
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