Il Parlamento Europeo ha visto così la sua decima alba, nella nuova composizione sancita dal voto a giugno di circa 180 milioni di cittadini europei. Quante inevitabili differenze da quel lontano 1979, la prima volta, che accese tante speranze. Ci ritroviamo con un’assemblea offuscata dai “franchi tiratori” ai quali è appeso il bis di Ursula von der Leyen alla Commissione, impelagata troppo spesso nel varo di micro-norme più che di grandi progetti (dopo la promettente “parentesi” del Recovery plan post pandemia) e soprattutto protesa oggi – al pari delle altre istituzioni comunitarie – a edificare non tanto quella realtà di pace che doveva essere la sostanza dell’Europa, quanto un presente di guerra, negazione stessa del disegno originale.
Alla presidenza è stata riconfermata Roberta Metsola, erede di quella Simone Veil che, da sopravvissuta ad Auschwitz, fu significativamente eletta nella prima legislatura: in quell’occasione disse che l’Europa doveva tutelare la libertà, la pace e il benessere. Mise non a caso il benessere al terzo posto, dando a intendere che gli altri due concetti ne erano i prerequisiti. È la prima lezione da riscoprire, ma per farlo non basterà ricordarle, come fatto ieri da Metsola, le parole libertà e pace (assieme a un’altra: vita). Occorre anche la capacità di uscire da schemi preconfezionati e basati solo sullo schema bellico, pur nella fondamentale distinzione dei ruoli fra invasore e occupato, e percorrere con fermezza la strada diplomatica. Lo stesso presidente ucraino Zelensky, del resto, è arrivato l’altro giorno a dire che nel prossimo futuro si dovrà «negoziare anche con rappresentanti russi».
Se nelle tornate precedenti l’Europarlamento si limitava a marcare una maggiore o minore continuità in un quadro comunque stabile e ordinato, la guerra alle porte sul fronte nordorientale del continente consegna ai nostri rappresentanti europei una situazione totalmente inedita. Nella decima legislatura che inizia, compito primario dell’Europarlamento sarà allora quello di dar vita all’espressione di un’idea di Europa in grado di superare la pura dimensione economica: che, costruita attorno alla nascita del mercato unico e dell’euro, è stata sul piano storico la caratteristica e al contempo il limite in questi ultimi decenni di un’Unione vista troppo spesso dai popoli quasi solo come un bancomat da usare o rifiutare a seconda dei casi.
Al di là della moneta che ci unisce e dei proclami, ci sentiamo tutti ancora troppo poco cittadini europei. Ed è questo il fattore che impedisce una vera comunità. Eppure, cercare di lavorare tutti insieme – e più di prima – non è più un’opzione, ma una necessità. Puntando a trovare un difficile equilibrio fra una identità europea da rafforzare e quei sovranismi nazionali che un po’ ovunque hanno preso vigore. Il “come” e il “quanto” garantire tale equilibrio è compito, appunto, dei nostri rappresentanti ai vari livelli. Occorrerà immaginare e introdurre una progettualità nuova e «non avere paura», come ha detto Metsola citando il grande papa Giovanni Paolo II. Spingendosi al di là di quella difesa comune ora riscoperta per forza di cose e che pur era un pilastro indicato a suo tempo da De Gasperi, Adenauer e Schuman.
Alcune diagnosi sono note da tempo: l’Europa oggi è in crisi perché è diventata troppo l’Europa dei capi di governo, a scapito della dimensione comunitaria, e perché è fallito a inizio millennio il tentativo di dotarci di una vera Costituzione. Una riforma delle istituzioni è il dossier prioritario da riprendere. Magari lavorando, ancor prima di pensare ad altri allargamenti, sullo schema di un’unione federale di Stati, senza una fusione ma pure senza eccessive confusioni di livelli.
Assieme all’Asia, per la sua storia millenaria, l’Europa ha il privilegio di essere un continente che ha già un suo contenuto di cultura e di umanità, anche se a volte pare vergognarsene quasi. È proprio per questo che le necessarie riforme istituzionali non dovranno essere calate dall’alto, ma far parte di un “patto con la cittadinanza”, chiamata a sentire marchiata sulla propria pelle la natura europea così come oggi ci sembrano imprescindibili taluni diritti civili e sociali. Il filosofo spagnolo Ortega Y Gasset fu profetico già decenni addietro nel prevedere l’importanza, per le nazioni europee, di proiettarsi in una dimensione di «unità sovra o ultranazionale» per non rischiare la decadenza. Dare sostanza a questa unità, anche nella pluralità delle idee e delle visioni è una missione non più rinviabile.