Afzal è morto come un italiano. Stroncato da un malore mentre inseguiva un ladro che aveva saccheggiato il suo negozio. Per difendere quello che era riuscito a costruire in venti anni di immigrato e poi in quattordici anni da commerciante. Pachistano, 48 anni, ben conosciuto a Manfredonia, terra di forte immigrazione, di sfruttamento ma anche di integrazione. Per tutti una persona allegra e gentile, Afzal è morto come altri commercianti italiani, vittima della criminalità. È morto come i quattro operai immigrati uccisi dal crollo del cantiere della Esselunga a Firenze, morti coi colleghi italiani. Morti italiani. Come le tante vittime sul lavoro, immigrati e italiani. Ugualmente lavoratori, ugualmente sfruttati. Certo, non poche volte l’immigrato è più sfruttato, più insicuro, meno tutelato e difeso. Ma poi, alla fine, nello sfruttamento, nella insicurezza sono tutti uguali. Come sono uguali quei ragazzi che muoiono negli incidenti stradali del sabato sera, con cognomi italiani e cognomi stranieri, ma che parlano tutti i nostri dialetti. Tutti italiani, tutti uguali. Ma nella morte. Come quell’ultimo abbraccio dei tre ragazzi affogati nel Natisone. Uguali nella morte, ragazzi e basta. Ma nella vita si continua a distinguere. Si è sempre diseguali o un po’ meno uguali, italiani e non italiani. La morte “'o ssaje ched’è? È 'na livella”, scriveva splendidamente Totò. Ma perché solo la morte deve renderci uguali? L’articolo 3 della nostra bellissima Costituzione recita che «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». Aggiungendo, ed è questa la parte più importante, che «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Qualcuno contesterà che gli immigrati non sono cittadini italiani, contestazione freddamente e disumanamente burocratica. Ma la Costituzione parla di “lavoratori”, come Afzal, come Taoufik Haidar, Mohamed El Ferhane, Mohamed Toukabri, Bouzekri Rahimi, i tre operai morti a Firenze, come Satnam Singh, il bracciante ferito, abbandonato e morto a Latina, come le decine di braccianti-schiavi scoperti in Piemonte e nel Veneto negli ultimi giorni e dei quali non sappiamo neanche il nome. Lavoratori diseguali in vita e poi, come la livella, uguali in morte. E alcune volte neanche, con intoppi burocratici, lentezze al rimpatrio delle salme, processi che finiscono in nulla. «Mio padre ha avuto una vita difficile - ha ricordato Adam, figlio di Afzal - mi ha sempre raccontato delle difficoltà per giungere in Italia e sognava per me una vita diversa». «Quel sogno che l’aveva portato qui in Italia - ha commentato Domenico La Marca, nuovo sindaco di Manfredonia, una vita accanto ai migranti - non è affondato nel mare, come accade a molti, ma si è fermato sulla piazza assolata della nostra cattedrale in una domenica di caldo». Una vita precedente da immigrato, una vita che voleva essere da cittadino italiano. Ma che alla fine lo è stata solo in morte. Anche se non abbiamo letto le solite dichiarazioni indignate e accusatorie che vengono sparse quando il commerciante morto è italianissimo. Mentre italianissimo sarebbe proprio il ladro. Proviamo a riflettere, provino a riflettere i nostri attuali governanti, così impegnati a sottolineare le diversità, le diseguaglianze e a penalizzare, e addirittura punire, chi è diverso, anche se vorrebbe tanto essere uguale. Integrazione, inclusione sono le parole che applicano l’articolo 3 della Costituzione, non i Cpr, le cauzioni, i respingimenti verso Paesi (in)sicuri, le detenzioni in Albania.
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