La metamorfosi cinese è compiuta ed è avvenuta, almeno per noi, più in fretta del previsto. Le intese tra Pechino e Roma ormai non sono più affari privati, come quando magnati asiatici dal volto imperscrutabile offrivano cascate di yuan per comprare avveniristiche aziende del
made in Italy. Sono veri e propri affari di Stato nel senso letterale del termine, visto che l’intesa annunciata ieri tra la più grande
utility pubblica mondiale, la State Grid Corporation of China, e la nostra Cassa depositi e prestiti, società controllata all’80% dal Tesoro, ratifica un’alleanza inedita dal punto di vista industriale tra i due Paesi.I due miliardi di euro che la Repubblica popolare cinese verserà nelle casse della società delle reti, principale azionista di Snam e Terna, segnano dunque una frattura netta tra passato e presente, almeno per il nostro Paese. Le sinergie si fanno al livello più alto, quello politico, ed è senza dubbio una svolta se solo si pensa che pochi anni fa il dibattito sui nostri rapporti con l’Impero di mezzo si concretizzava in anacronistiche pretese protezionistiche contro il nemico invasore. Quanto sta accadendo è senza dubbio un bene per la nostra industria, tornata in pochi mesi al centro degli interessi di Pechino, come dimostrano le vicende di Eni, Enel e Ansaldo Energia, tre colossi di casa nostra entrati, a diverso titolo, nella lista dei desideri asiatici. Meno decifrabile appare invece il destino di infrastrutture strategiche, come quelle dell’energia elettrica e del gas, che vedranno in futuro i colossi cinesi in posizione di azionisti di minoranza. Pesanti, ma di minoranza, perché il governo, attraverso Cassa depositi e prestiti, ha assicurato che il controllo resterà in mani italiane. Nessuna barriera all’ingresso, ma salvaguardia dell’interesse nazionale: sembra dunque essere questa la strategia industriale dell’esecutivo, in attesa che vengano date garanzie al mercato e ai consumatori finali, dalle famiglie alle imprese, sulla futura "società delle reti".D’altra parte, conviene sempre guardare a quel che sta accadendo alla nostra economia (e non solo) con i piedi ben piantati sul territorio (dove, fino a prova contraria, i gruppi cinesi hanno finora sempre confermato gli impegni presi con aziende e lavoratori) ma senza indugiare in atteggiamenti provincialistici. L’Italia è solo l’ultima fermata della grande avanzata cinese, avviata oltre un decennio fa. La nostra penisola è poco più di un puntino nella mappa del potere tracciata dal nuovo leader Xi Jinping. Prima di noi, molto prima di noi, arrivò la Germania, che resta il partner per eccellenza in Europa dei grandi gruppi asiatici, a partire dalla manifattura. In tempi più recenti, è toccato alla Gran Bretagna e alla Francia, dove i servizi delle
utility da un lato e molte realtà immobiliari dall’altro ormai parlano mandarino. Mentre il nostro Paese indugiava, mani asiatiche si compravano mezza Africa e andavano in Grecia, Ungheria, Spagna per investire in porti, aeroporti, logistica. È come se gli imprenditori venuti dall’Oriente avessero un bisogno estremo di controllare non tanto le merci che producono, quanto le rotte che li portano sui nostri mercati. Per questo, sono stati disposti a spendere moneta sonante e ancora lo fanno, anche con piccoli gioielli artigianali del
made in Italy, dalla moda al design. L’altro aspetto tutt’altro che secondario della vicenda è la presenza nella partita industriale di un soggetto come Cassa depositi e prestiti, che ha saputo ritagliarsi un ruolo centrale nell’attuale scenario nazionale. Non c’è dossier industriale in cui la società del Tesoro non venga chiamata in causa, a dimostrazione di quanto conti oggi, giunti al settimo anno della Grande Crisi, un governo "pubblico" dell’economia e della finanza. Su questo, la sintonia con la Cina è totale.