La decisione della Corte penale internazionale era attesa, prevista e di fatto quasi inevitabile, alla luce dei massacri di civili compiuti vicendevolmente da Hamas e dalle forze militari israeliane. Così come del tutto prevedibili le reazioni indignate da parte di Tel Aviv e degli Stati Uniti ai mandati di arresto contro il primo ministro Bibi Netanyahu e l’ex ministro della difesa Yoav Gallant, con la solita accusa alla Corte di essere “antisemita”. Il governo di estrema destra israeliano, del resto, usa questa accusa con troppa facilità contro chiunque dissenta dai metodi brutali usati contro i palestinesi o si indigni per i quasi cinquantamila morti, moltissimi dei quali donne e bambini.
Ma cosa succederà ora, ci si chiede? Risposte troppo frettolose confermano la parola “nulla”: la Corte non ha potere coercitivo e tanti Paesi non ne riconoscono il ruolo. Quindi Bibi e il suo ex ministro possono continuare a dormire tranquilli. Non è così in realtà, perché questo mandato di arresto produrrà delle conseguenze – in un verso o nell’altro – tanto in Israele quanto in Occidente. A livello immediato, il primo ministro israeliano diventa un paria della politica internazionale, al pari di Putin, anch’egli inseguito dalla Corte penale. Entrambi dovranno calcolare in quali Paesi rischiano l’arresto e in quali possono ancora circolare; quanti governi si chiederanno se possono dialogare tranquillamente con dei “latitanti”, perché questo è il loro status giuridico internazionale. Le conseguenze più a lungo termine, tuttavia, si riverbereranno a tre livelli.
Riguardando l’Occidente, il rapporto fra Stati Uniti ed Europa e nei confronti dei Paesi del Sud Globale, sempre più irritati dalla stridente differenza fra i valori che diciamo di voler promuovere e i nostri comportamenti reali.
Washington ha bollato come vergognosa la decisione della Corte dell’Aja; reazione attesa da parte di un governo sempre schierato con Israele e che non ha mai riconosciuto l’autorità dei giudici internazionali. E peggio ancora sarà con l’avvento di Trump, il quale in passato avrebbe vagheggiato di “invadere l’Aja”. Si potrebbe sorridere dinanzi a un simile delirio, ma invece questo dà la cifra del fastidio degli Stati Uniti dinanzi a un giudice indipendente. Non a caso essi sono in buona compagnia con Cina e Russia nel non riconoscere l’autorità della Corte: le grandi potenze vogliono le mani libere, e lo vorranno sempre più in un mondo che purtroppo sembra tornare velocemente alle logiche della pura potenza di stampo ottocentesco.
Il secondo livello delle conseguenze sarà l’allargamento delle differenze fra Stati Uniti e Europa, in una fase di crescente fastidio e preoccupazione reciproca. Anche qui l’avvento di Trump si annuncia tempestoso per le relazioni trans-atlantiche, e le differenze nei confronti di questi mandati d’arresto non potranno che acuirle, dato che vari Paesi dell’Unione hanno già dichiarato di volerli rispettare. Le voci politiche più sagge del Vecchio Continente – non che ve ne siano molte, in verità – spingono perché da una dinamica politica negativa come l’allontanamento delle due sponde atlantiche scaturisca un rafforzamento dell’Unione e un superamento delle tradizionali, miserevoli rivalità fra gli Stati europei. Il rischio, invece, con il quale si dovrà lottare, è che i governi facciano a gara nello scodinzolare attorno al prossimo inquilino della Casa Bianca, indebolendo ulteriormente il ruolo e la forza dell’Europa.
Infine, l’onda lunga di questa decisione si avrà fra Europa e Paesi del Sud Globale, in Asia, Africa e America Latina. Da tempo cresce l’insofferenza per il cosiddetto “double standard”, il doppio registro che usa l’Occidente, sempre implacabile nel sottolineare le violazioni ai diritti umani e alle regole internazionali dei Paesi non amici, mentre siamo distratti – o del tutto ciechi e sordi – quando si tratta di Paesi alleati. Tutto ciò ha negli anni minato la nostra credibilità come promotori di politiche globali, favorendo l’immagine di un Occidente eminentemente ipocrita, a tutto vantaggio di quei Paesi che di diritti umani e di rispetto della dignità umana non vogliono sentir parlare. E le decine di migliaia di morti a Gaza e ora l’allargamento del conflitto in Libano sono per tanti governi del Sud del mondo la cartina di tornasole dei nostri comportamenti reali. Se l’Europa non vuole perdere del tutto la credibilità come promotore di diritti condivisibili da tutto il sistema internazionale deve tenere la barra dritta, rispettando fino in fondo, volente o nolente, le decisioni della Corte penale internazionale.