In un sabato quasi d’estate, di fine scuola, e con nell’aria un principio di nuova speranza – che l’epidemia stia finendo, che il Paese riparta – c’è una lettera sul web, che mette il freddo addosso. L’ha scritta un ragazzo di 20 anni, italiano, cresciuto in Italia ma etiope di nascita, un giovane ex calciatore delle giovanili del Milan, che si è ucciso. È quella di Seid Visin, una lettera molto bella, e terribile. La lettera di un ragazzo nero a un Paese che ha visto cambiare. Una lettera all’Italia dell’anno 2021, scritta nel 2018. Non più quella in cui un bambino nero, adottato a sette anni a Nocera Inferiore, si era abituato a sentirsi guardare con curiosità, ma anche rispetto e affetto.
In pochi anni, con l’aumento del flusso migratorio, con la vulgata dell’”invasione”, gli sguardi della gente cambiano, si fanno sospettosi. Forse, anche, perché Seid non è più un bambino ma un uomo, un atleta, alto e forte. Qualcuno in lui comincia a percepire una minaccia, come se una faccia nera indicasse un nemico. Seid si è fatto uomo e l’Italia si è fatta più dura, e ancora di più con il Covid – impoverita, chiusa nelle sue paure.
Scriveva il ragazzo nel post su Facebook: “Adesso, ovunque io vada, ovunque io sia, ovunque mi trovi sento sulle mie spalle, come un macigno, il peso degli sguardi scettici, prevenuti, schifati e impauriti delle persone. Qualche mese fa ero riuscito a trovare un lavoro che ho dovuto lasciare perché troppe persone, prevalentemente anziane, si rifiutavano di farsi servire da me e, come se non bastasse, come se non mi sentissi già a disagio, mi additavano anche la responsabilità del fatto che molti giovani italiani (bianchi) non trovassero lavoro”.
C’è un pezzo dell’Italia di oggi in queste righe, vista però con gli occhi degli “altri”: di quelli che bussano alla nostra porta. Giacché, benché Seid fosse cresciuto in una famiglia italiana e nelle nostre scuole, il mondo intorno era cambiato tanto che ormai bastava la sua pelle a destare rancore. “Questo qui lavora, e i nostri figli a spasso…”, borbottavano certi clienti al bar. Oppure gli amici di sempre di colpo, vedendo Seid, intonavano in coro: “CasaPound, CasaPound…” Per scherzo, naturalmente - per scherzo. Si era amici, certo, come prima. Ma “CasaPound, CasaPound”, il nome della formazione neofascista continuava poi, a casa, a risuonare nella testa del ragazzo, incredulo. Un amico nero come lui gli racconta che stava giocando a pallone quando gli si sono avvicinate delle signore: “Goditi questo tuo tempo, perché tra un po’ verranno a prenderti per riportarti al tuo Paese”, dicono.
E questa è forse la riga peggiore della lettera: donne adulte, forse anche madri, che parlano così a un ragazzo che gioca a pallone. Forse non credevamo di essere arrivati a questo punto. Forse c’è più odio, sotto la pelle di quest’Italia, di quanto ci eravamo resi conto. Non che non sapessimo dell’allargarsi del razzismo. Però una frase sibilata ai bordi di un campetto dice più, a volte, di tanti sondaggi. Dice di un’Italia incattivita.
Una nota teoria sociologica, quella del “capro espiatorio”, afferma che nelle fasi di impoverimento l’ostilità sociale aumenta e mira ai più deboli, agli stranieri, ai “diversi”, in un accanimento verso chi già è ai margini. È possibile che Seid, evidentemente intelligente e sensibile, questo abbia percepito: la pelle di un Paese conosciuto e caro, cambiare. È possibile, anche, che noi “italiani veri” non afferriamo fino in fondo il deterioramento, che non si palesa a chi ha la pelle bianca. È possibile perfino, ci diciamo leggendo la lettera, e quasi affannosamente, che altri motivi personali abbiano concorso a tanta disperazione. Gli stessi genitori ora dicono che la discriminazione non c'entra. Forse Seid aveva sperato di diventare un asso del pallone, ed era solo molto bravo. Forse ha pesato la memoria dei primi anni da orfano. Ma sì, altri motivi avranno concorso perché un ragazzo, che in un video sul web danza di gioia nelle strade di Roma, si sia ucciso. Con ciò, le parole che ci lascia su di noi non possono lasciarci in pace. “La paura per l’odio che vedevo negli occhi della gente verso gli immigrati, la paura per il disprezzo che sentivo nella bocca della gente…”.
Infine, le ultime righe, allargate in una coscienza più ampia: “Il disagio e la sofferenza che sto vivendo io sono una goccia d’acqua in confronto all’oceano di sofferenza che stanno vivendo quelle persone dalla spiccata e dalla vigorosa dignità, che preferiscono morire anziché condurre un’esistenza nella miseria e nell’inferno. Quelle persone che rischiano la vita, e tanti l’hanno già persa, solo per annusare, per assaporare, per assaggiare il sapore di quella che noi chiamiamo semplicemente 'Vita'".
Si resta zitti. Non si clicca su un’altra notizia. Che cosa ci vai dicendo di noi, Seid, con il tuo bel viso da ragazzo nero? Qualcosa che non sapevamo forse appieno. Come uno schiaffo: brucia, maledettamente. (Ci sono a volte, però, schiaffi utili, almeno). Caro Seid, perdonaci, se puoi. Che sappia, questa tua lettera divenuta tragico testamento, aprire gli occhi, fra di noi, a qualcuno.