«Dio non è troppo, Dio è troppo poco», così Emanuele Severino incoraggiava i suoi amici cattolici a pensare di fronte all’affermazione atea che «Dio non esiste». E con ragione. Fosse anche l’Ipsum Esse subsistens (l’Essere stesso sussistente) di san Tommaso, sarebbe «troppo poco». È tempo di abituarsi a un linguaggio controintuitivo, tipico della fisica delle particelle elementari, la nuova scienza di successo che sta meravigliando tutti con le sue scoperte. Molti giovani millennial – la prima generazione incredula (Armando Matteo) – hanno fatto sintesi con le informazioni dell’astrofisica sull’infinitamente grande: «Dio non esiste, perché il fisico teorico Stephen Hawking, ricostruendo la storia dell’universo in espansione, dal Big Bang ai buchi neri, non l’ha incontrato». Chi ha autorevolezza impressiona e convince.
«Dio per me non è neanche una ipotesi», fece dire, tempo fa, un’intervista al premio Nobel Giorgio Parisi e, ora, lui ha spiegato su queste pagine che fu una sintesi traditrice il senso della frase: «Sono convinto della separazione tra scienza e fede in quanto hanno scopi diversi». E su questo siamo tutti d’accordo. In gioco, però, c’è la libertà del metodo scientifico, della sua autonomia, da custodire gelosamente: «Sarei un pessimo scienziato se cercassi di spiegare i miei dati sperimentali ipotizzando l’esistenza di Dio».
Da Galileo in poi non è stato facile acquisire la distinzione dei diversi campi del sapere umano. Certo fondamentalismo cattolico portò alla sua condanna. Oggi non c’è cattolico così ottuso da non capire il senso di quel «la Scrittura non ci insegna come vada il cielo ma come si vada in cielo». E però i tempi sono molto cambiati da allora. La separazione e l’eccessiva specializzazione dei saperi è innaturale, rispetto all’unità della scienza e del suo stesso metodo.
È innaturale rispetto alla realtà, sempre più grande dei saperi. È tempo di osare di più sul versante della contaminazione dei saperi, con «estrema cautela nell’adozione di inferenze», non sbandierando quasi fossero 'prove' sul mistero di Dio ciò che, invece, può essere identificato come 'traccia' (Giuseppe Lorizio). La traccia è molto più della prova, perché la prova dissolve Dio, la traccia rimette nel giusto cammino e orienta la ricerca. Sempre distinguere e mai separare, è, d’altra parte, una sorta di 'dogma logico' della mente intelligente che avanza nella scoperta (anche scientifica) secondo Bernard Lonergan, prima scienziato, poi epistemologo e infine teologo. Scienza e fede vanno certo distinte.
Ma perché separarle? Separarle nuoce alla scienza, prima ancora che alla fede. Non separarle porterebbe a confonderle? È perché, se oggi si ha così tanta consapevolezza della differenza dei metodi e dei campi di indagine. Lo scienziato che sa così bene della scienza, sa anche altrettanto bene della fede e delle sue verità, quando dice perentoriamente che vanno non tanto distinte, ma separate? I bisogni del mondo – dai cambiamenti climatici alle popolazioni immiserite della terra che hanno fame – esigono dalle scienze (compresa la teologia) il ritrovamento della sinergia per condividere le scoperte in nome dell’umanità. La 'transculturalità' dei saperi richiesta da papa Francesco in Veritatis gaudium può essere la via adeguata, più della interdisciplinarietà. Bisogna osare 'là dove volano le aquile', perché la ricerca della verità/realtà è infinita. È la meraviglia e il fascino della scienza, propiziata nei secoli dalla fede cristiana in Occidente. E per quel «troppo poco» di significato che, filosoficamente, la parola 'Dio' racchiude, forse l’ipotesi di Dio è presente in ogni ricerca dell’uomo, animale dotato di logos.
Per non confondere poi, i teologi (e pure tutti gli altri) hanno l’analogia, cioè quella via profonda del linguaggio, per la quale si stabiliscono similitudini vere, in dissomiglianze ancora più grandi, dove la dissomiglianza serve la similitudine, l’arricchisce e le da forma. Nel guadagno dell’analogia scientiae, alcune stranezze della meccanica quantistica (la doppia natura onda-corpuscolo delle particelle, l’entanglement, la sovrapposizione quantistica) devono dar da pensare anche in teologia per dire meglio oggi il mistero di Dio e comunicarlo anche agli scienziati che sono alla ricerca dei misteri dell’universo. Potrebbe servire anche l’esperimento mentale del 'Gatto di Schroedinger'. Chissa? È vero «Dio non gioca a dadi» (Albert Einstein), ma noi, grazie a Werner Heisenberg, sì.
Vescovo di Noto