Caro direttore,
alcune crisi hanno un lato positivo: trasformano i declini graduali in cadute verticali, e ci costringono a prendere provvedimenti che altrimenti avremmo continuato a rimandare. Il Recovery Plan da presentare alla Commissione europea entro ottobre è un’opportunità non tanto per il volume di finanziamenti: i tanto sbandierati 209 miliardi sono molti meno, se consideriamo che oltre la metà sono prestiti e buona parte di quelli a fondo perduto vengono neutralizzati dall’aumento del contributo italiano al bilancio dell’Ue. Il Recovery gioca un ruolo cruciale perché inaugura una stagione di investimenti come non si vedeva da decenni. Una stagione che potrebbe essere più unica che rara, visto il rischio di un ritorno all’austerità, passata la crisi. Per questo, insieme a Cristina Bargero, Michele Geraci, Francesco Grillo e Rossella Muroni, rappresentanti di vari schieramenti accademici e politici, ho pubblicato un paper che avanza proposte di metodo e sostanza per evitare di perdere questa opportunità, come spesso è accaduto in passato. E siamo già in ritardo, visto che non ci sono ancora state interlocuzioni significative tra Governo, Parlamento, mondo produttivo e società civile. Il nostro contributo può aiutare anche a facilitare la partecipazione dal basso in questa fase così delicata. Prima di tutto, gli investimenti devono avere come obiettivo l’aumento del tasso di crescita potenziale e di lungo periodo, privilegiando processi di sviluppo duraturi, piuttosto che la mera gestione del ciclo economico e dei consumi. Una strategia lungimirante deve puntare su una visione innovativa, che metta al centro il capitale umano, sociale, culturale e naturale, tutti elementi insostituibili di benessere diffuso e sostenibilità economica.
Allo stesso tempo, bisogna garantire una spesa veloce e che ottenga importanti risultati nel prossimo quinquennio (la Ue si aspetta effetti entro il 2024), puntando su settori ad alto moltiplicatore e a effetto leva (riqualificazione edilizia sociale e sostenibile, infrastrutture minori di trasporto, reti idriche e tecnologiche, impianti di depurazione e di trattamento dei rifiuti, economia circolare con tecnologia 4.0), utilizzando strumenti di cofinanziamento privato, quali impact investment e crowdfunding. È necessario arrivare direttamente alle persone (famiglie e soprattutto giovani), con l’obiettivo di aggredire le diseguaglianze che, ormai, sono forte fattore di rallentamento dello sviluppo, e minimizzando la possibilità che le risorse economiche siano 'catturate' da grandi gruppi di potere e imprenditoriali, che hanno spesso dominato le scelte di politica industriale ai fini della conservazione dello status quo. Questi obiettivi saranno perseguibili se sapremo valorizzare la formazione, con investimenti adeguati, e dare vita a un’economia della conoscenza che parta da scuola, università e ricerca. Il nostro faro dovrà essere la transizione industriale eco- compatibile, puntando su una maggiore efficienza nell’uso di energia e risorse, un riassetto complessivo della geografia urbana e rurale e una drastica riduzione delle esternalità negative, privilegiando le modalità di produzione e consumo che invece generano esternalità positive. Infine, è cruciale creare comunità più capaci di resistere alle crisi: le nazioni che hanno meglio affrontato la pandemia, infatti, sono state quelle che, negli anni, hanno investito di più e meglio sulla salute pubblica, la riduzione delle disuguaglianze e gli ammortizzatori sociali.
Risulta difficile immaginare il conseguimento di questi obiettivi in assenza di certe condizioni, come la riorganizzazione radicale e la digitalizzazione dell’amministrazione, una riforma della giustizia e del fisco, volta a semplificare le regole e ricucire un rapporto di fiducia tra Stato e cittadini, l’implementazione di un’infrastruttura digitale finalizzata all’innovazione e al raggiungimento degli obiettivi. Durante la pandemia, abbiamo scoperto i limiti della didattica a distanza, ma non ne abbiamo ancora colto tutte le potenzialità. Se applicata in modo complementare per mettere le scuole in rete tra loro e condividere lezioni, consentirebbe la riapertura di tanti istituti di quartiere, nelle periferie e nelle aree interne, dando vita a un sistema scolastico integrato e meglio distribuito sul territorio, con piccole classi, più adatte alle attività laboratoriali e all’innovazione didattica. Abbiamo visto l’affermarsi di forme di lavoro agile ( smart working). Oltre ai benefici, ci sono tante sfide, come lo spopolamento di lavoratori dei centri delle città, ma non dobbiamo rinunciarvi: dobbiamo favorire una deconcentrazione delle città, a partire dalla ristorazione ai servizi, distribuendoli in maniera più equilibrata nelle periferie, nelle aree interne, nei tanti borghi che negli anni si sono spopolati, e quindi dare vita a nuove opportunità economiche lì dove si sono creati veri e propri deserti di investimento. Al Piano deve essere abbinato un set di indicatori di realizzazione ( output) e di risultato (outcome) che siano comprensibili all’opinione pubblica, così da poter alimentare un dibattito nazionale maturo sulle prospettive di sviluppo del Paese, in grado di superare il gossip e la retorica che ormai dominano la comunicazione politica. Un più elevato livello del dibattito getta le basi per un nuovo contratto sociale tra Stato e cittadini, tra amministrazioni centrali e locali e società civile.
Il paper completo è accessibile QUI
Economista e parlamentare, già ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca