Solo 19 donne tra 194 oratori all'Onu: una sconfitta per tutti
giovedì 26 settembre 2024

«È logico», fanno notare gli esperti di politica internazionale. È logico che nella lista dei 194 oratori che si stanno alternando al microfono, sullo scranno di marmo nero del Palazzo delle Nazioni Unite, le donne siano solo 19: appena 5 capi di Stato (più una vice), 4 premier (tra cui quella italiana, Giorgia Meloni). Oltre a loro, all’Assemblea generale di New York, si sono viste 9 ministre: Germania e Svezia, per esempio, hanno optato per questa scelta.

Ma anche questo è logico, perché nella piccola parte di mondo che è l’Europa – continuano gli esperti – si sono fatti passi avanti: le donne entrano più facilmente nei governi, la parità di genere è un traguardo non così lontano dall’essere conquistato (pur con i problemi incontrati di recente da Ursula von der Leyen nel formare una Commissione europea bilanciata), è più facile che ci siano donne nei governi, è più facile dunque che rappresentino il proprio Paese in occasioni così importanti. In Africa no, in Sudamerica no, figurarsi in Asia o in Medio Oriente: «È la loro cultura, impossibile cambiarla».

Così, seguendo la logica, non ci si scandalizza: al tavolo delle Nazioni Unite, come a quelli del G7 e del G8, dei grandi summit, delle trattative sulla pace e sulla guerra, di tutte le decisioni importanti che riguardano la vita e il futuro del genere umano, le donne non ci sono perché tranne che in rarissimi casi non hanno potere, non contano.

La realtà però contesta la logica, la scompagina. Le donne contano, e non solo perché numericamente di donne è composta la metà del genere umano. Le donne danno la vita, le donne lavorano, le donne votano, le donne fanno scienza e ricerca e cultura e poesia e musica.

Di più, quando è consentito loro di decidere, le donne cambiano anche il mondo: a quegli stessi tavoli, dove oggi si parla soprattutto di guerra, emerge chiaramente quanto la presenza di donne in qualità di testimoni, firmatarie, mediatrici o negoziatrici, aumenti le possibilità che gli accordi raggiunti reggano (almeno 2 anni del 20%, che durino stabilmente del 35%: i dati sono quelli dell’International peace institute). Questo perché le donne a quei tavoli negoziali e in quei dibattiti anche in Africa, in Sud America e in Asia - quasi sempre portano la loro agenda, diversa e complementare a quella degli uomini: non rivendicazioni territoriali, non diatribe su armamenti e sistemi di difesa e ruoli politici, ma misure contro la diseguaglianza sociale, rispetto dei diritti delle minoranze, cura dell’infanzia, politiche di conciliazione e di convivenza.

È lo “sguardo femminile” sul mondo: le donne sono le madri dei soldati che vanno a morire al fronte, le vedove, le vittime degli stupri, le profughe. Le donne sono il pilastro della famiglia, le protagoniste dell’educazione, le pazienti tessitrici della riconciliazione sociale. Avvenire lo ha raccontato e documentato nella sua campagna #donneperlapace nei mesi scorsi, dando simbolicamente il microfono a oltre venti donne che nella storia dei loro Paesi hanno contato: è stata una scelta di campo, oltre che di inchiesta giornalistica. Le abbiamo fatte parlare per tutte le altre, per tutte le volte che non hanno parlato o non sono state ascoltate.

Abbiamo chiesto, con una petizione al Parlamento europeo, che sia ridato slancio a quell’Agenda Donna Pace e Sicurezza con cui proprio l’Onu nel 2000 auspicava una maggiore presenza di donne nei colloqui di pace e una prospettiva di genere nei negoziati. Siamo convinti che sia una sconfitta per tutti – uomini e donne – che siano escluse o sottorappresentate, a ogni livello. Lo è stata la sedia vuota di Narges Mohammadi alla consegna del Nobel ad Oslo, lo sono i microfoni spenti al Palazzo di Vetro.

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