martedì 7 gennaio 2025
Antonio Aparo è un mago del punto croce, una passione che lo accompagna nei suoi 34 anni di reclusione
Il ricamo della redenzione: storia di una vita ricostruita in carcere

Jeugov

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Con questo articolo prende il via un viaggio nel mondo delle carceri alla ricerca di “punti di luce”, storie di persone nelle quali l’avere trovato ragioni di speranza, pur nelle difficili condizioni della detenzione, alimenta il desiderio di cambiare vita. Scopriamo che la persona non può essere definita dal suo errore, dal reato che ha compiuto, ma può sempre ripartire.


Antonio Aparo è un mago del ricamo a punto croce. Un’arte antica, inconsueta per mani maschili, che affonda nei ricordi della sua infanzia quando vedeva ricamare la sorella, e che da tempo è divenuta inseparabile compagna delle sue giornate. Non ha molto altro da fare, Antonio, nella sua cella del reparto di alta sicurezza del carcere di Opera dove è rinchiuso. Racconta così la passione che ogni giorno gli fa compagnia: «È un tema letterario ricorrente quello del prigioniero che ritrovandosi messo ai ferri prende l’uncinetto e sferruzza la catenella per allentare le catene della vita. Io ho scelto il ferro dell’ago, io ricamo. I compagni mi guardano e non si danno ragione della fatica del corpo su uno sgabello, della schiena piegata, delle mani pazienti e rapide, la passione delle dita, degli occhi concentrati fino a diciotto ore al giorno. In silenzio ho cominciato a imprigionare i giorni, i mesi, gli anni, mentre il tempo si è messo a tessermi le rughe in volto. Curvo la schiena su idee che prendono la forma di fili colorati, accolgo la storia che la tela mi offre come accettazione della vita e imparo a renderla al meglio. La stoffa è data come la vita, a me la possibilità di renderla migliore. In ogni ricamo racconto quello che non ho saputo fare e che ho imparato: serro il filo dell’ago, entro nella tela e raggiungo il rovescio, sfogo la voglia di tornare indietro e invertire il corso degli eventi, risalgo e poi rientro, cucire e scucire diventano così processi di revisione interiore. Infilo lo sguardo sul fondo di un ricordo, seguo la legge del passo, trasformo il vuoto in un punto, ripasso le ragioni, comprendo gli errori».

Il ricamo come trama dell’esistenza. Di un’esistenza popolata di trasgressioni, trame mafiose, reati efferati commessi nella sua terra siciliana, processi e condanne, una galera cominciata il 5 luglio 1990, quando aveva 32 anni, che ancora non si è conclusa. E forse mai si concluderà: nel linguaggio giudiziario, asciutto e tremendo, fine pena mai.

C’è una sera d’estate, il 16 giugno 1990, che ha segnato per sempre la vita di Antonio, quando la guerra tra le cosche imperversava e lui era già sottoposto a misure di prevenzione, con l’obbligo di firma tre volte al giorno. Dal terrazzo di casa sente alcune scariche di armi, si affaccia e vede due uomini che sparano al fratello Salvatore e si dileguano in auto, lui si precipita in strada sperando che sia ancora vivo, lo prende tra le braccia, si ritrova imbrattato di sangue e di una materia vischiosa: il cervello di Salvatore. In luglio finisce in carcere per una rapina, in settembre tre uomini vengono arrestati con l’accusa di avere ucciso suo fratello, Antonio giura in cuor suo che gli assassini sarebbero stati raggiunti un giorno dalla sua vendetta.

Processato e condannato per una lunga serie di reati, trascorre ventisette anni da sepolto vivo nel girone infernale del “41 bis” coltivando rancore e sete di rivalsa, nel 2017 esce dal regime di carcere duro e viene trasferito a Voghera. È lì che accade un altro fatto decisivo. Un giorno nella sezione in cui è rinchiuso vede un uomo malconcio con i segni evidenti del Parkinson che trema, barcolla, cade a terra. Lui si avvicina per rialzarlo, lo riconosce: è Giuseppe Di Benedetto, il killer di suo fratello. «In quel momento ho sentito il dolore salire dalle viscere fino alla testa, invadere il cuore. Il dolore offriva la mano alla vendetta che mi diceva: “Fallo ora, fallo subito, non avrai un’altra opportunità, sono ventisette anni che aspetti”. Ma quando mi sono trovato di fronte a lui, una voce mi ha parlato: “Antonio, Antonio, sei tu? Cosa vuoi fare, adesso?” Era la voce del perdono che bussava alla porta del mio cuore. Dio mi aveva raggiunto proprio in quell’istante, quando ero pronto a consumare una vendetta vanamente attesa per tanti anni. Guardai in faccia Giuseppe, mentre l’abbracciavo per rialzarlo rivivevo l’abbraccio con mio fratello, in lui ritrovavo Salvatore agonizzante. In quel momento ho capito che la vendetta non mi apparteneva più, che non avrebbe risolto nulla: per molto tempo era stato un fuoco da coltivare, ma stava accadendo qualcosa di inatteso. Nella mentalità mafiosa quell’abbraccio con l’assassino di mio fratello è un gesto inconcepibile, significa ammettere la propria debolezza. Per me invece è stato un momento di liberazione, ho compreso che potevo diventare migliore dell’uomo che ero stato in passato».

Dopo alcuni giorni Giuseppe Di Benedetto viene trasferito a Opera dove due anni dopo arriva anche Antonio, seppure in una sezione diversa. I due tornano a frequentarsi: mentre la salute di Giuseppe declinava sempre più Antonio lo ha accompagnato, si è preso cura di lui che ormai si muoveva solo sulla sedia a rotelle. Accudendolo ha dato un senso alle sue giornate, alla sua carcerazione senza fine. Nulla era dimenticato o cancellato, tutto era perdonato. Giuseppe è morto il 10 giugno di quest’anno, Antonio lo ha ricordato durante un incontro dell’associazione “Nessuno tocchi Caino” nel teatro di Opera: «Era un nemico, è morto come un fratello, come mio fratello».

Da tempo Aparo, che ha sulle spalle 34 anni di detenzione, chiede di ottenere i permessi per poter uscire di galera e di accedere alla libertà condizionale, una possibilità riconosciuta dalla legge ma che finora gli è stata negata, le sue istanze sono state tutte rigettate ma lui non demorde. «Non reclamo la mia innocenza, mi sono pubblicamente assunto la responsabilità per ciò che ho fatto, ho fatto una revisione critica del mio passato criminale di cui provo vergogna. Ma chiedo rispetto per la persona che sono diventato: un uomo cambiato, che vuole osservare la legge, riconciliarsi con la società e testimoniare la sua volontà di riscatto. So che non posso riparare il danno procurato alla società né ridare la vita a chi l’ha persa per causa mia. Spero, un giorno, di poter restituire tutto quanto sarà nelle mie forze. Il giuramento che ho pronunciato quando sono entrato nella mafia mi ha tenuto prigioniero per tanti anni, oggi mi sono sganciato da quelle catene, mi sento un uomo libero anche nella condizione di detenuto».

Si è iscritto all’università, frequenta il corso di laurea in storia, partecipa alle attività teatrali in carcere, frequenta un laboratorio di mosaico, fa di tutto per sentirsi vivo. «In questi ultimi anni ho incontrato educatori e volontari che hanno accompagnato il mio percorso di cambiamento e ne sono testimoni. Il recluso ha bisogno di confrontarsi con persone che lo aiutano a interrogarsi sul perché si trova rinchiuso in carcere, e a ritrovare ragioni che alimentino la speranza. A volte la vita si ferma, ma accadono incontri che la fanno ripartire. Ogni incontro diventa una possibilità».

Alcuni dei ricami che ha realizzato sono pubblicati sul profilo Instagram gestito dal figlio (“Il ricamo della redenzione”), testimonianza muta ed eloquente del suo percorso e del desiderio di riparare la tela di una società che tante volte ha lacerato con i suoi gesti.

«La mia vita prosegue oltre gli strappi, l’ergastolo non l’ha fermata, e come un’esperta ricamatrice sutura le ferite. Prego, e spero che Dio sappia perdonare il mio passato. Ricamare è un esercizio di espiazione e insieme di ripartenza umana, cucendo con un filo che chiamo speranza».

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