A due settimane dal comunicato che annunciava la dichiarazione di incostituzionalità parziale dell’Italicum, la Corte costituzionale ha reso note le motivazioni della sua decisione. La sentenza n. 35 del 2017 presenta vari profili di interesse, ma tre di essi risaltano con più immediatezza: 1) la scelta stessa di dichiarare ammissibile la questione; 2) l’incostituzionalità del ballottaggio; 3) l’invito al legislatore a coordinare le leggi per l’elezione di Camera e Senato.
Sul primo punto, la Corte ha ribadito la posizione (opinabile) assunta nel 2014, quando dichiarò incostituzionale il Porcellum. Mentre i Padri costituenti avevano deliberatamente lasciato le scelte sul sistema elettorale al circuito della rappresentanza, la Corte costituzionale ha avocato questo territorio – proprio della Costituzione “politica” – alla Costituzione “normativa”, cioè ai princìpi costituzionali interpretati (assai creativamente, ieri il presidente dell’Alta Corte Grossi ha preferito parlare di un «inventivo» ruolo di «ossigenazione») dai giudici. Ciò costituisce un’alterazione rilevante della separazione fra politica e giurisdizione, che è il volto contemporaneo della separazione dei poteri. Ma, a quanto pare, ormai bisognerà farsene una ragione.
Nel merito, la sentenza è un abile esercizio di contorsionismo giuridico, che apporta ben poca chiarezza per il futuro. L’Italicum prevedeva che, qualora nessuna lista raggiungesse il 40% dei voti validi, si facesse luogo a un secondo turno, cui sarebbero state ammesse solo le due liste che avessero ottenuto il maggior numero di voti. Nel ballottaggio, una di esse, superando (al limite anche per un solo voto) il 50 per cento dei voti validi, avrebbe ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi, con l’obiettivo di assicurare la governabilità e la chiarezza dell’esito elettorale la sera delle elezioni. Secondo la Corte, il ballottaggio è costituzionalmente illegittimo non in astratto (con la conseguenza che ciò non si applica, ad esempio, al sistema elettorale comunale), ma per il modo in cui esso era concretamente costruito nell’Italicum, vale a dire: a) senza la previsione di una soglia minima di consensi al primo turno; b) senza la previsione di un requisito minimo di partecipazione al voto; c) senza la possibilità di procedere ad apparentamenti con altre liste.
La ragione ultima per cui il ballottaggio dell’Italicum è incostituzionale sta dunque, secondo la Corte, nella compressione eccessiva del carattere rappresentativo dell’assemblea elettiva e del principio dell’eguaglianza del voto: questi principi avrebbero subito un sacrificio eccessivo, finalizzato a soddisfare l’esigenza della governabilità. Il che andrebbe valutato anche alla luce del fatto che, in un regime parlamentare, l’esigenza della rappresentatività delle Camere dovrebbe essere recessiva rispetto all’esigenza di favorire la governabilità. Ma a questo punto la Corte arriva con una quantità sorprendente di “se” e di “ma”, che rendono molto tortuosa la decisione e che non solo lasciano aperta la valutazione di sistemi elettorali diversi (basati non sul principio proporzionale, ma sui collegi uninominali maggioritari a turno unico o a doppio turno), ma persino parrebbero consentire una riedizione lievemente corretta dello stesso Italicum, in cui fossero, per esempio, consentiti gli apparentamenti e la validità del ballottaggio fosse subordinata alla partecipazione al voto della metà più uno degli elettori.
La Corte, infine, ha escluso che la diversità di sistemi elettorali fra le due Camere determini di per sé l’incostituzionalità di uno di essi. Ma, alla fine della sua decisione, ha invitato il legislatore a prevedere norme elettorali che «non ostacolino la formazione di maggioranze parlamentari omogenee»: e qui la palla torna nel campo del Parlamento, cui spetterà ora cercare di ridurre la disomogeneità dei due sistemi elettorali. Pur sapendo che il difetto sta nel manico, vale a dire nel Bicameralismo perfetto e paritario che la nostra Costituzione è l’unica al mondo a prevedere anche per il voto di fiducia: ma quest’ultimo è un risultato, da tempo noto, del referendum dello scorso 4 dicembre. A questo punto, comunque, le forze politiche hanno a disposizione tutti gli elementi per decidere se e come intervenire sull’assetto della legislazione elettorale per le due Camere, così come risulta dal doppio intervento di bisturi della Consulta sulle leggi elettorali del 2005 e del 2015. La “politica”, che vede eroso il proprio campo, ha un’occasione per far bene la propria parte. E nessun alibi.