Immagini di archivio delle principali metropoli del mondo: New York, New Delhi, Pechino, mostrano l'alto livello di inquinamento dell'aria e delle acque - Ansa
«Più vitale che mai». Così Simon Stiell, segretario esecutivo della Convenzione Onu sui cambiamenti climatici, ha definito il ruolo del G7 nell’azione per il clima. Canada, Francia, Germania, Italia Giappone, Gran Bretagna e Usa sono responsabili di un quarto delle emissioni globali. Il loro contributo diretto è fondamentale perché l’aumento delle temperature del pianeta stia entro la soglia di equilibrio di 1, 5 gradi. Con un taglio drastico: il 58 per cento entro il 2030 rispetto ai livelli del 2019, secondo l’ultimo dato di Climate analytics. I Sette Grandi, però, che rappresentano il 38 per cento del Pil globale, sono fondamentali nel sostenere la transizione energetica globale. Il momento è cruciale. Al prossimo vertice Onu sul clima (Cop29) – in programma a Baku a novembre – la comunità internazionale dovrà definire la cifra da mettere a disposizione dei Paesi vulnerabili perché possano contenere l’inquinamento e far fronte agli impatti del riscaldamento globale. Senza un’adeguata “finanza per il clima” – come si dice in termini tecnici –, la febbre della terra continuerà a crescere.
Gli esperti sono chiari: occorrono non miliardi ma migliaia di miliardi. I primi passi devono essere compiuti ora. Ecco perché la strada per Baku passa per Torino e l’attuale riunione ministeriale del G7 che si configura come un test per l’attuazione di quanto pattuito alla precedente Cop di Dubai. Prima fra tutti l’uscita dai combustibili fossili. L’esordio è stato positivo. Per la prima volta, stando alle anticipazioni del ministro britannico Andrew Bowie, le maggiori economie hanno ottenuto il via libera di Tokyo e deciso di fissare una data comune per l’addio al carbone: al più tardi entro il 2035. Resta, però, il nodo del petrolio e del gas. I sussidi ai combustibili fossili hanno raggiunto l’anno scorso il record di 7mila miliardi di dollari equivalente al 7 per cento Pil mondiale. Quasi il doppio rispetto a quanto i governi investono, per esempio, in educazione. L’addio a carbone, gas e petrolio va in pari passo con i fondi supportare la decarbonizzazione nel Sud del mondo. I negoziatori sembrano orientati a una somma ambiziosa. Resta da vedere se, però, riusciranno a metterlo nero su bianco e, soprattutto, a creare dei meccanismi perché non resti solo sulla carta. L’Italia, guida e ospite della ministeriale, ha il ruolo di arbitro delle trattative: può, dunque, spingere perché ci sia lo slancio tanto atteso dall’opinione pubblica, in primis i giovani. In questo senso, la menzione del ministro Gilberto Pichetto Frattin della “responsabilità” verso le nazioni fragili.
Maggiori perplessità desta, invece, l’ostinazione a dedicare attenzione politica a tecnologie ritenute dagli esperti marginali o controverse per la decarbonizzazione dell’economia nazionale o internazionale, come i biocombustibili e il nucleare. I primi possono avere un effetto indesiderato in termini di deforestazione. I costi e i tempi per la costruzione di nuove centrali atomiche dove non ci sono - 15 o 20 anni - e per rendere la fusione un’opzione su scala – una trentina -, poi, sono incompatibili con l’urgenza di frenare il surriscaldamento del pianeta. Continuare a battere su questi tasti distrae dalle soluzioni – già individuate in sede Cop – da prendere, rapidamente. In questo, proprio l’Italia – dove, tra l’altro, non ci sono impianti atomici potrebbe dare l’esempio. Con la definizione – propone Luca Bergamaschi, direttore del think tank Ecco - di un piano che, combinando rinnovabili, batterie e reti elettriche, consenta una progressiva uscita dal gas, da cui deriva il 45 per cento dell’energia. Ancora una volta si tratta di applicare quanto pattuito a Dubai: triplicare le rinnovabili entro il 2030. Il tempo è poco. Non possiamo permetterci di perderlo.