Aspettate a gioire. E aspettate a disperarvi. Ogni volta che Facebook fa un annuncio, bisogna essere molto cauti. Perché il più grande social del mondo – vale la pena di ricordarlo a rischio di passare per malpensanti – non è una onlus, un club, una comunità o una società civile con regole democratiche. Facebook è una società privata. Di più: Facebook è una formidabile macchina da soldi. Nonostante le «fake news» e il Russiagate, nel solo terzo trimestre del 2017 ha fatturato 10,3 miliardi di dollari, in crescita del 47% e ben oltre le stime degli analisti. Il suo valore globale ha superato i 523 miliardi di dollari. Una cifra enorme legata soprattutto al fatto che il social ha nel suo portafoglio una larga fetta della vita digitale di quasi 2 miliardi di persone e di migliaia e migliaia di società che attraverso Facebook cercano di avere visibilità o di vendere i loro prodotti, che siano notizie o profumi poco importa.
A prima vista, la svolta annunciata ieri dal suo padre-padrone Mark Zuckerberg (anche se era nell’aria da tempo) contiene elementi assolutamente condivisibili, tipo: «Sentiamo la responsabilità di assicurare che i nostri prodotti siano non solo divertenti da usare, ma anche positivi per il benessere della gente». Per questo «sto cambiando l’obiettivo dato ai nostri team di lavoro, passando dall’aiutare gli utenti a trovare contenuti rilevanti, all’aiutarli ad avere interazioni sociali più significative». Cosa significa in pratica? Che d’ora in avanti gli utenti vedranno più post degli amici e dei familiari e meno notizie dalle pagine che seguono, siano esse di un giornale, una televisione, un politico, una rockstar o un’azienda di qualunque settore merceologico.
All’apparenza è una mossa suicida sul piano del business. Tant’è vero che, dopo l’annuncio, il titolo ha perso in Borsa a Wall Street il 5%. All’apparenza, però. Non va dimenticato infatti che Facebook si sta ancora riprendendo da mesi di attacchi per essere un propagatore di fake news. Ha quindi bisogno di un robusto cambio d’immagine. Da social dell’odio e del falso a luogo di condivisione, di amicizia, di relazione. Dietro questa scelta c’è anche altro. Per esempio, che una serie di studi interni hanno dimostrato che le news (vere o false che siano) nonostante le tante polemiche e gli attacchi su tutti i media del mondo pesano nel social meno del 10%. Mentre un’enorme sondaggio tra gli iscritti ha fatto capire a Facebook che le persone sono stufe di vedere le loro bacheche invase da notizie (spesso drammatiche e quindi in qualche modo 'deprimenti') visto che la maggior parte degli utenti frequenta il social innanzitutto per svagarsi, trovare cose divertenti, chiacchierare con i conoscenti e curiosare su cosa fanno gli amici. A furia di vedere «inquinato» il proprio «news feeed» (la sequenza di post che ci appare quando siamo su Facebook) le persone si sono stufate. Non solo. Hanno diminuito i commenti e le interazioni (dai like ai sorrisi, dai cuoricini alle faccine arrabbiate). Hanno cioè dimostrato di divertirsi di meno.
Quindi, questo cambiamento, non è un «regalo» di Facebook (col «trucco», vedremo tra poco perché), ma una richiesta nata in parte dagli utenti. E le pagine social dei giornali? E le pagine aziendali? E quelle di politici, star e aziende? Come ha spiegato il responsabile del News Feed di Facebook, Adam Mosseri, «le pagine potrebbero assistere ad un calo della loro reach (cioè del numero di individui che hanno la possibilità di vedere un post o un video – ndr), della durata delle visualizzazioni nei video e del traffico». Non solo, i post con meno commenti e reazioni spariranno alla vista dei più.
Ma è davvero possibile che Facebook penalizzi le star della musica o colossi dell’industria o giornali potentissimi come il 'New York Times' o il 'Washington Post' o, per stare in casa nostra, 'Repubblica', 'Corriere' e 'Stampa'? Certamente no. E infatti le pagine che coi loro contenuti raggiungono già certi volumi di traffico non subiranno alcuna penalizzazione. Scrive PierLuca Santoro su DatamediaHub: «Sembra che Facebook abbia avvisato preventivamente alcuni publisher, dicendo che per alcuni editori di elevata reputazione i contenuti continueranno a essere messi in evidenza o comunque non penalizzati, creando di fatto, secondo criteri che non sono per nulla chiari, una lista di, pochi, di serie A e una, ampia, di serie B».
Così facendo il democratico, sensibile e premuroso Zuckerberg creerà di fatto l’ennesimo impero digitale (sempre più simile a un media che a un social vero e proprio) dove esisteranno in maniera sempre più netta utenti, artisti, politici, opinionisti e giornali di serie A e di serie B. Nei Paesi dove il nuovo sistema è già stato testato, infatti, alcuni giornali hanno avuto un calo degli accessi proveniente da Facebook del 60-70%. Salvo poi riguadagnare un po’ di attenzione quando hanno deciso di pagare Facebook per aumentare la visibilità dei loro articoli. Della serie: siccome siete giornali 'minori' o pagate o vi silenzio.
Marco Camisani Calzolari, docente universitario in Digital comunicazione e fake news non ha dubbi. E all’Agi dichiara: «Con questa modifica all’algoritmo la possibilità degli editori e delle aziende di far vedere su Facebook i loro contenuti diventerà praticamente zero. Già oggi solo l’1% di chi ha messo mi piace a una pagina vede un suo post, quindi mille persone ogni 100mila like. Ora questa percentuale scenderà ancora. È dal 2011 che Facebook sta andando in questa direzione: diventare un media dove bisogna pagare per esserci». Come salvarsi? Per Camisani Calzolari «le aziende devono prepararsi a questo cambiamento e cominciare a comunicare in maniera diversa, anche più personale. Ma è una strada molto rischiosa e può diventare controproducente». I nutile negarlo.
Anche la voce di 'Avvenire' e di tanti media cattolici e non è a rischio con questi cambiamenti di Facebook. Come uscirne? Santoro una ricetta ce l’ha e che vale per tutti: «Occorre usare i social non per portare traffico al proprio sito ma per coinvolgere e convincere le persone della bontà e della rilevanza dei contenuti del proprio newsbrand». E ancora: «Lavorare per favorire le condivisioni dei propri contenuti affinché i contenuti del proprio newsbrand arrivino alle persone grazie ai loro contatti». Già, più condividerete i contenuti di 'Avvenire' e di ogni altra pagina che volete sostenere, e più questa avrà visibilità. Attenti però a non esagerare per non produrre l’effetto opposto: cioè di apparire molesti agli occhi degli amici social e quindi essere da loro silenziati magari per un mese (con l’opzione «metti in pausa XYZ per 30 giorni»).
Una soluzione per aziende ed editori è quella di creare gruppi, aperti o chiusi, legati alle proprie pagine. Ma funziona solo se sono composti da tante, tantissime persone. Come conclude Santoro: «Giocare in casa d’altri con regole fumose non è mai stato divertente e interessante. Ora, in caso di dubbi, ne abbiamo la certezza». Perché è bene ribadirlo, giganti come Facebook, Google e Apple non sono dei benefattori dell’umanità ma al massimo dei propri azionisti.