Nei fallaci tentativi di dare un senso a questa guerra, anche se questa guerra un senso non ce l’ha, Vladimir Putin evoca, ovviamente per stigmatizzarlo e assumerlo come bersaglio non solo culturale, ma militare, l’«Occidente collettivo», cui attribuisce tendenze neo-colonialiste nei confronti del resto del mondo e in particolare dell’Est europeo. L’accusa non è certo recente, tanto che la ritroviamo in una sorta di catechismo, strutturato in domande e risposte, compilato dal giornalista filoputiniano Vitalij Tret’jakov e pubblicato col titolo 'Breve catechesi dell’uomo russo' nel n. 12/2017 di 'Trimarium. Tra Russia e Germania', ripreso da 'Limes' nel dicembre dello stesso anno.
L’autore così definiva la formula: «Per noi in Russia il concetto di 'Occidente' include prima di tutto gli Stati Uniti e poi, ma soltanto in seconda battuta, l’Europa occidentale o l’Unione Europea. Per lo stesso motivo, spesso da noi si usa il termine 'Occidente collettivo' per indicare Stati Uniti, Paesi dell’Europa occidentale (Europa meridionale inclusa) e dell’Europa settentrionale, cioè i paesi scandinavi».
L’ordine geopolitico qui disegnato non è indifferente, in quanto da parte russofila si ritiene che siano gli Usa il motore di questa collettività occidentale. In questa prospettiva, il conflitto bellico si sposta dal piano militare e politico al livello dell’identità culturale e spirituale dei contendenti. Il patriarca Kirill aveva parlato di «guerra metafisica».
E proprio per sostenere questa chiave di lettura Putin e Kirill hanno bisogno l’uno dell’altro, ritenendo entrambi (il secondo più del primo) che la cosiddetta civiltà occidentale collettiva sia ormai irrimediabilmente corrotta e priva di valori. Insomma, l’Occidente non avrebbe un’anima. Questa rappresentazione si fa strada anche nei nostri ambienti e l’abbiamo ritrovata in un editoriale del quotidiano 'la Repubblica' (25 luglio 2022), nel quale Ezio Mauro scrive: «Due universali, dunque, si sfidano oggi, uno democratico e razionale [= l’Occidente collettivo], l’altro missionario e spirituale [= la madre Russia], e sono troppi per il mondo rimpicciolito dalla globalizzazione».
Impossibile rassegnarsi a questa ricostruzione tendente a privare il nostro contesto di un’anima e di una spiritualità. E non si tratta certo di quello 'spirito del mondo' che Hegel aveva ritenuto di scorgere nell’imperatore Napoleone, che passava a cavallo sotto la sua finestra a Jena (1806), mentre il filosofo stava completando la sua 'Fenomenologia dello Spirito', ritenendo che Bonaparte incarnasse l’ideale di libertà proprio della rivoluzione, alla quale aveva plaudito. Naturalmente dovette ricredersi.
Né l’anima di una civiltà si può identificare con un personaggio che ne detiene il potere. Così come non possiamo precludere alla razionalità e alla democrazia la spiritualità e la missionarietà e viceversa, in quanto non si tratta di due assoluti contrapposti, uno dei quali andrebbe eliminato anche con la forza. La spiritualità chiamata ad animare l’Occidente non potrà essere priva di razionalità, né di democrazia, che, secondo un noto aforisma di Winston Churchill, sarebbe la peggior forma di governo tranne tutte le altre finora sperimentate.
E questo perché la religiosità non può prescindere dal logos-ragione, né dal logosparola- dialogo, come ha magistralmente insegnato Benedetto XVI nel suo, tanto famoso quanto frainteso, discorso di Regensburg: «La violenza è in contrasto con la natura di Dio e la natura dell’anima. 'Dio non si compiace del sangue – egli [l’imperatore Manuele II Paleologo] dice –, non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio. La fede è frutto dell’anima, non del corpo. Chi, quindi, vuole condurre qualcuno alla fede ha bisogno della capacità di parlare bene e di ragionare correttamente, non invece della violenza e della minaccia… Per convincere un’anima ragionevole non è necessario disporre né del proprio braccio, né di strumenti per colpire né di qualunque altro mezzo con cui si possa minacciare una persona di morte'». E questo perché nel nostro Dna di cristiani (anche ortodossi russi) dovrebbe albergare la consapevolezza del fatto che il nostro culto è razionale, come scrive Paolo ai Romani, logikè latreia (Rm 12,1).
L’indagine sulla spiritualità occidentale, che si genera e dovrebbe alimentarsi dalle proprie, imprescindibili radici ebraicocristiane, per quanto secolarizzate e depauperate del loro orizzonte di trascendenza, richiederebbe approfondite e documentate ricerche. Ma proprio in questi giorni possiamo mostrarne un esito, scomodo e certamente non trionfalistico, nel viaggio penitenziale che papa Francesco ha appena compiuto in Canada. Nella convinzione che la scuola sia un terreno propizio e delicato in cui una civiltà trasmette i propri valori alle giovani generazioni, mentre da un lato rileviamo e denunziamo l’operazione, questa sì colonialistica, di Putin-Kirill, di cui ha parlato Marta Ottaviani sulle pagine di questo giornale il 23 luglio scorso, sottolineiamo con forza la presa di distanza e la richiesta di perdono per gli efferati comportamenti dei cattolici nei confronti delle popolazioni indigene, in modo che si possa attivare una feconda 'purificazione della memoria' e non solo proclamare, ma vivere il 'mai più!' nei confronti di tali comportamenti.
Una cifra della spiritualità occidentale è quella di saper attivare non formali momenti di autocritica, in modo da mettersi continuamente in discussione a partire dal messaggio evangelico. Senza un autentico spirito democratico nella società civile e sinodale nella comunità cristiana, si cade facilmente nel colonialismo e nel proselitismo, spesso oggetto di denuncia da parte del Papa.
Un messaggio che la dice lunga sul senso dell’autenticità della fede cristiana, che l’Occidente è chiamato a custodire: «Quando si parla di vocazioni, mi vengono in mente tante cose, tante cose da dire, che si possono pensare o fare, piani apostolici o proposte… Ma io vorrei prima di tutto chiarire una cosa: che il lavoro per le vocazioni, con le vocazioni, non dev’essere, non è proselitismo. Non è 'cercare nuovi soci per questo club'. No. Deve muoversi nella linea della crescita che Benedetto XVI tanto chiaramente ci ha detto: la crescita della Chiesa è per attrazione, non per proselitismo. Così. Lo ha detto anche a noi [ Vescovi Latinoamericani] ad Aparecida» (discorso del 6 giugno 2019). E quanto si dice delle vocazioni si può ben applicare all’ambito scolastico e in genere alla missione della comunità cristiana nel mondo.