Nessuno si stupisca se qui si torna a ragionare sull’argento mondiale della Nazionale femminile di pallavolo. Un grande risultato, purtroppo però l’attuale babele delle opinioni ha fatto sì che tutto il dibattito si sia incentrato solo su alcuni dei suoi molteplici aspetti. Da un lato, la ipotesi ovviamente infondata di discriminazione da parte della comunicazione pubblicitaria che avrebbe coperto le immagini delle ragazze di colore, non si sa bene poi per quale ragione. Dall’altro, la preoccupazione di affermare che le ragazze di colore in argento dimostrerebbero quanto conveniente sia la accoglienza dei migranti, argomento sottilmente velenoso. Al netto di tutto questo, a me risulta incredibile che ancora si parli di colore o non colore. Non importa se in positivo o in negativo. È già un problema che gli occhi di chi guarda vedano le differenze somatiche come primo discrimine per impostare un qualunque ragionamento o rapporto.
Incredibile, ma vero. Ancora oggi si ripropone la diffidenza modulata fino a forme di razzismo latenti o manifeste, con esiti anche tragici, verso le differenze che derivano da una diversità di aspetto, provenienza, cultura. Sembra che a tratti questo diventi il ricettacolo di frustrazioni, rabbie, tornaconti personali e politici. Eppure le differenze tra esseri umani sono risorse. La diversità, grande patrimonio e interrogativo, è garanzia di vitalità e dinamicità. Voglio però essere radicale: anche se non fossero 'risorse' questo non inficerebbe in alcun modo la parità di diritti di ognuno. Esistere non ha a che fare con graduatorie di merito di alcun tipo. E per andare al nocciolo del problema è necessario riflettere sulle motivazioni del rispetto, dell’ecumenismo, del dialogo. Le differenze tra esseri umani non sono associate a pacchetti di benefit.
Ricordo il mitico evento di Kinshasa del 30 ottobre 1974 passato alla storia come the rumble in the jungle. In quel caso, due grandissimi pugili afroamericani si sono trovati ad identificare a livello globale parti che avevano molto a che fare con il tema del razzismo in America. Da un lato George Foreman, il pugile integrato e condiscendente, almeno secondo l’opinione pubblica, dall’altro Muhammad Ali, che proveniva dal ghetto, simbolo degli afroamericani-contro, ispirato da Martin Luther King e amico di Malcom X. Personalmente credo fosse una grande semplificazione ai fini dello spettacolo, come potrebbe testimoniare uno come Don King, il più grande organizzatore di incontri mai esistito, anche lui afroamericano. Eppure attraverso questo incontro sembrava passare la legittimazione di una causa. Se avesse vinto Foreman cosa si sarebbe pensato? Che 'integrato' è meglio e 'contro' è peggio? Questo livello di riflessione collettiva, se così la si può chiamare, non giova in nessun modo al superamento della idea di differenza. Giova a battaglie di mercato, ai baratti politici e sociali, ma certo non tocca il fulcro del problema. Ha più a che fare col folklore che con il razzismo. Può servire a sollevare il problema, ma non è la risposta. Perché non vi è risultato, non vi è talento, non vi è medaglia che possa servire da lasciapassare all’accettazione che è di diritto.
Ecco perché trovo francamente un po’ patetiche tutte quelle manifestazioni di entusiasmo per il fatto che atleti di provenienza non autoctona ottengano dei risultati a dimostrazione che sono un plus per la società che li accoglie. Non ha, non deve avere, alcuna incidenza sul tema. Esattamente, insisto, come la questione dei migranti come 'risorse'. Si dice: i migranti servono al Pil nazionale e ci pagano le pensioni, quindi vanno accolti. Medaglie e presunti ritorni economici non sono altro che una ulteriore forma di discriminazione, di accettazione selettiva, di ipocrisia della società bene che solo in apparenza compie un salto rispetto agli xenofobi e razzisti tout court. Il significato sottinteso è: quelli che sono utili vanno esaltati e in qualche modo giustificano gli altri. Bestemmia alla dignità umana. Nessuno deve essere giustificato per la sua esistenza e i suoi diritti, nulla importa se olimpionico o senzatetto, nullafacente, malato, luminare o ipodotato, buono o cattivo. Il diritto affonda le sue radici intoccabili nella esistenza di ognuno. Appellarsi al rendimento per giustificare un valore significa due cose. Una è non fidarsi della scommessa vertiginosa e meravigliosa della preziosa dignità umana. L’altra è figlia di una doppiezza di fondo: da un lato, si vuole affermare il valore della uguaglianza; dall’altro, si pensa che per ottenere consenso e riconoscimento sia necessario blandire la pigra condiscendenza altrui con un baratto che non ha senso.
Se ci si fa caso questo atteggiamento è sempre rivolto verso gli altri. Per se stessi invece si cerca la gratuità, la disponibilità, l’accoglienza, senza preoccuparsi di dover schiacciare nei tre metri facendo punto alla Serbia, o di dover dimostrare la propria solvibilità in termini di patto sociale. Questo dovrebbe far riflettere. La empatia verso se stessi è la traccia di ciò che dovrebbe essere verso tutti. Deve essere chiaro che il tradimento della gratuità della dignità altrui è un tradimento verso se stessi, e quando dovremo chiedere senza poter offrire medaglie di qualche tipo, avremo la risposta feroce che ci meritiamo. In cui abbiamo fortemente creduto. Per gli altri.