Un giovane Jimmy Carter - Ansa
Idealista, pacifista e sfortunato. Di Jimmy Carter si ricorderanno probabilmente queste tre facce, ciascuna indelebilmente stampata sul suo volto. Cominciamo dall’ultima. Nei suoi quattro anni di mandato si trovò ad affrontare la stagflazione, la crisi degli ostaggi di Teheran (52 diplomatici statunitensi tenuti prigionieri nell’ambasciata da un gruppo di studenti khomeinisti, cui seguì un fallito blitz militare, l’operazione Eagle Claw, per tentare di liberarli), l’incidente di Three Mile Island (una Chernobyl in miniatura che mise in crisi la politica nucleare civile mondiale), la crisi energetica, la guerra civile nel Salvador.
Al Carter pacifista si sommava il Carter bellico. Pochi forse se lo ricordano, ma nel 1980 quale risposta all’invasione sovietica dell’Afghanistan il presidente enunciò – forse suo malgrado, visto l’impulso pacifista che lo animava - la sua “Dottrina Carter” (l’autore e ideatore in realtà fu il consigliere per la sicurezza nazionale Zbigniew Brzezinski), prolungamento ideale della “Dottrina Truman”, secondo cui gli Stati Uniti non avrebbero esitato ad adoperare la forza militare per proteggere i propri interessi nel Golfo Persico, senza sapere che in tal modo si prolungava la guerra fredda, culminata con il boicottaggio americano delle Olimpiadi Mosca.
Cresciuto a Plains in Georgia, profondo Sud, si laurea in ingegneria e intraprende una carriera in Marina, che tuttavia abbandona alla morte del padre per prendere le redini della sua azienda di arachidi. Lo chiamano Mr Peanuts, e un po’ lo sfottono, anche i suoi colleghi democratici, quando nel 1971 diventa governatore del suo Stato e proclama fiducioso che farà guerra alla segregazione razziale: una vera bestemmia in uno degli Stati più segregazionisti della Bible Belt, la cintura della Bibbia, dove i rednecks – i bifolchi dal collo arrossato dal sole – dominano e determinano le fortune elettorali di ogni candidato, appoggiati dalla forte maggioranza evangelica di Atlanta.
In realtà è la grande politica che lo attrae, quella che porta alla Casa Bianca. Ma il 1968 vede il trionfo di Richard Nixon e il tandem con Henry Kissinger, bissato nel 1972 nonostante le ombre dello scandalo Watergate si addensassero attorno al presidente repubblicano. E quando un secondo prima che l’impeachment lo gettasse nella povere Nixon lascia la Casa Bianca a Gerald Ford, per Carter è il momento magico per una sfida la cui conclusione è già scritta: vince ai punti con il vice Walter Mondale (50,08 dei voti popolari, con l’intero West, California compresa, che ha votato per Ford) nonostante a tutti gli effetti sia un perfetto sconosciuto.
L'ex presidente Usa Jimmy Carter è morto a 100 anni - Ansa
Di sbagli ne fa parecchi, ma quello che per l’elettorato americano è considerato imperdonabile è l’essersi presentato come paladino dei diritti umani al cospetto di facce di bronzo come Leonid Brežnev o Andrej Gromyko, per non dire di torve figure oscurantiste come l’ayatollah Khomeini. La debolezza che trapela nel fiacco braccio di ferro fra le superpotenze quasi mette in ombra il fatto che sotto la sua presidenza siano stati siglati gli accordi di Camp David sottoscritti dal presidente egiziano Sadat (che pagherà con la vita qualche anno dopo il voltafaccia nei confronti del mondo islamico) e il premier israeliano Begin.
Quando nel 1980 si ripresenta insieme a Mondale alle elezioni presidenziali è un uomo fragile, indebolito dalla crisi degli ostaggi di Teheran e impotente di fronte alle fiammeggianti promesse dell’attore hollywoodiano di serie B Ronald Reagan e del suo vice George H.Bush. La sua è la teatrale sconfitta di una presidenza che l’America disperata e in crisi punisce scegliendo un candidato che lo travolge con una valanga che gli lascia solo le briciole, 4 stati su 50. Un record assoluto.
Il dopo-Carter diventa per lui un impegno costante per la pace. Nel 2002 ne otterrà il Premio Nobel e insieme un astioso dissenso da parte dell’establishment della East Coast per aver apparentato l’occupazione israeliana dei Territori a una sorta di apartheid. Fino all’ultimo ha mantenuto la fede democratica, sostenendo pubblicamente ora Bill Clinton, ora Obama, ora Hillary Clinton e perfino Bernie Sanders, per poi spendersi con circospezione sulla candidatura di Kamala Harris. Sposato nel 1946 con Rosalynn Smith dalla quale ha avuto quattro figli le è rimasto accanto fino alla sua morte nel 2023. Per uno dei tanti sberleffi della Storia anche in queste ore c’è un ostaggio a Teheran nelle mani del regime degli ayatollah.
Ma il mondo di Jimmy Carter è per tutti un ricordo ormai lontano. La crisi delle democrazie liberali, l’insorgere delle autocrazie tecnocratiche, i nazionalismi e i sovranismi estremi non fanno parte della sua generazione.
Ci lascia a cento anni compiuti, insieme al ricordo di una nobile ma disarmata utopia, sorretta da una fede scolpita nel suo cuore fin dalla sua giovinezza nella Chiesa battista.