Nel marzo 2001 il Mozambico venne colpito da un’alluvione di proporzioni colossali che interessò soprattutto la parte centrale del Paese. Chi scrive si trovava là per seguire, per conto di "Avvenire", un viaggio di Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, che, su invito del presidente Chissano, era volato in Africa per rilanciare gli accordi di pace firmati a Roma nel 1992. Capitò l’occasione di partecipare a un viaggio di ricognizione della Cooperazione italiana. Sorvolammo in elicottero, per alcune ore, una zona sterminata, completamente allagata. Impossibile dimenticare i campi per gli sfollati, improvvisate oasi nella devastazione; impossibile dimenticare le punte degli alberi che spuntavano – come mani che chiedevano disperatamente aiuto – dall’enorme massa d’acqua.
Tale scenario dantesco è tornato alla mente, nei giorni scorsi, alla notizia del disastro provocato dal ciclone Idai, che non ha trovato granché spazio nei media di casa nostra (solo poche testate ne hanno scritto, e ancora meno l’hanno portata in prima pagina). Eppure l’Onu considera l’emergenza causata da Idai grave quanto le crisi umanitarie provocate dai conflitti in Siria e Yemen. Sì, avete letto bene: il ciclone, che ha già provocato oltre 700 vittime, spazzato via Beira, la seconda città del Paese e colpito anche Zimbabwe e Malawi, ha avuto un impatto sulla zona colpita pari a quello di una guerra.
È una guerra "non convenzionale", che parte da lontano e ha a che fare con la progressiva vulnerabilità delle popolazioni più povere davanti ai mutamenti del clima che alcuni potenti insieme a vari aggressivi polemisti si ostinano a negare (e a smentirli arriva oggi il rapporto dell’Agenzia internazionale dell’energia, secondo cui nel 2018 le emissioni globali di CO2 del settore energetico – il 60% delle emissioni totali – sono ancora aumentate dell’1,7%). Nel caso del Mozambico, secondo gli esperti del Global Facility for Disaster Reduction and Recovery, il cambiamento climatico in atto rischia di aggravare la situazione del Paese che già oggi figura al terzo posto tra gli Stati africani più esposti ai pericoli meteorologici.
Ebbene. Solo una decina di giorni fa quasi tutti i media hanno dedicato (giustamente) ampi spazi alle manifestazioni degli studenti in favore di una più convinta presa di coscienza del problema dei cambiamenti climatici. Nella settimana passata ha avuto, giustamente, una certa eco anche l’allarme dell’Ispra circa il riscaldamento nel nostro Paese.
Nel medesimo arco temporale, tuttavia, un altro evento catastrofico in Africa (oltre all’alluvione in Mozambico) è passato quasi totalmente sotto silenzio.
In pochi ci hanno informato del terribile e prolungato periodo di siccità che sta minando la sopravvivenza di milioni di persone nel Corno d’Africa, dove ancor oggi la stragrande maggioranza della popolazione vive di agricoltura di sussistenza. La Rete statunitense per rilevare precocemente il pericolo di carestie (in sigla Feswn) ha lanciato l’allarme: ci si attende nei prossimi mesi un drammatico peggioramento della situazione. Una situazione già molto grave, posto che in Kenya, ad esempio, la siccità sta devastando 12 delle 47 contee del Paese, mietendo vittime.
Pure diverse aree della vicina Etiopia vivono lo stesso dramma; ma un forte Sos tocca pure la Somalia e, con ogni probabilità, anche l’Eritrea, sebbene da quel Paese sia difficile, per ragioni politiche, avere dati precisi sulle condizioni della popolazione. Insomma: a meno di un cambio radicale di scenario, una nuova e grave carestia potrebbe scatenarsi a cominciare dalle prossime settimane. Il punto è che situazioni del genere sono sempre più ricorrenti. Come denuncia 'Nigrizia', sulla scia di dati Onu, «i disastri provocati dal clima sono raddoppiati dal 1990 a oggi. Ma a fronte di questa preoccupante situazione, stanno diminuendo gli aiuti internazionali».
Dove si vuole arrivare? Semplice. Se noi adulti vogliamo cominciare a prendere sul serio le proteste dei nostri figli e nipoti, il primo dovere da garantire loro è un’informazione seria, continuativa e puntuale sul 'riscaldamento globale', sulla pesante corresponsabilità umana nel fenomeno e sulle implicazioni per la vita delle popolazioni, con particolare attenzione a quelle meno attrezzate per affrontare eventi e situazioni che sbaglieremmo a chiamare 'capricci della natura'. Al contrario, avremo la responsabilità di non aver saputo incanalare la speranza, la rabbia e i desideri di cambiare di una generazione che va educata, cominciando col darle informazioni adeguate, e a cambiare – come nella Laudato si’ ci invita a fare papa Francesco – stili di vita che non possiamo più permetterci.