Anche se il mondo in cui viviamo è meno violento di qualsiasi mondo del passato, questo è solo uno dei suoi aspetti. L’altro aspetto evidenzia esattamente il contrario: uno spaventoso aumento di violenza e minaccia di violenza. Il nostro mondo risparmia più vittime e contemporaneamente uccide più vittime di quanto sia mai avvenuto in passato
René Girard. Violenza e religione
La gratuità è il principale tabù del capitalismo. La teme come il pericolo più grande, perché se la lasciasse correre liberamente nei suoi territori ne verrebbe contagiato e il suo "veleno" ne decreterebbe la morte, oppure – ed è la stessa cosa – lo trasformerebbe in qualcosa di sostanzialmente diverso. Scorgere il tabù della gratuità dentro la nostra economia (e società) è difficile perché è coperto da un altro tabù: quello del riconoscimento della sua esistenza. Per capire, allora, il rapporto profondo tra gratuità e capitalismo dobbiamo violare questo primo tabù, iniziando, semplicemente, a parlarne.
Secondo una importante tradizione antropologica, l’origine delle civiltà è profondamente legata a due parole: la violenza e il sacro. Anche la Bibbia fa iniziare la storia umana fuori dall’Eden con il fratricidio di Caino. La morte del mite e giusto Abele, diventa il primo prezzo della fondazione della civiltà umana. Miti fondativi di altre città (ad esempio, Roma) narrano simili violenze e omicidi, che a volte hanno gli dèi come complici. Le comunità hanno dovuto imparare a gestire le pulsioni violente degli uomini, per evitare la propria auto-distruzione. La creazione dei tabù va inserita all’interno degli strumenti per regolare e controllare la violenza, per evitare che diventasse mimetica, ripetuta, esplosiva. Strumenti che le comunità hanno pagato a caro prezzo, perché i tabù sono stati posti su persone e azioni che hanno prodotto discriminazioni e non di rado autentiche persecuzioni nei confronti di chi era oggetto del tabù (donne, lebbrosi, poveri, malati, interi popoli).
Il rapporto tra una comunità e i suoi tabù presenta una radicale ambivalenza. Da una parte il tabù è tutto ciò che si deve evitare, che non si può toccare, da cui immunizzarsi per non essere contaminati e contagiati dal suo spirito (il mana). E le parole associate al tabù non si devono pronunciare. La terra del tabù non può essere attraversata. Le comunità sono cambiate, morte e risorte secondo il ritmo della creazione, violazione ed eliminazione dei tabù. E, sebbene con modalità tutte diverse, questo stesso ritmo ancestrale della terra continua a scandire anche la nostra storia.
Al tempo stesso, il contenuto del tabù esercita sulle persone un’attrazione fatale, forte, a tratti invincibile: il tabù non può essere violato, ma (e in quanto) desidereremmo profondamente farlo – è il desiderio di vendetta nei confronti di Caino («chiunque mi troverà mi ucciderà») che produce il suo "segno" («nessuno tocchi Caino»): Genesi 4,14. Le sue parole sono vietate, ma forte è la tentazione di volerle pronunciare. In base a quello che, ad esempio, Freud chiama «il tabù dei dominatori», i re non possono essere toccati dai loro sudditi, un divieto che mira a contrastare la passione-desiderio profonda di uccidere i re e dominatori presente nei membri delle comunità.
Gli oggetti, gli animali, le persone considerate tabù presentano poi una duplice caratteristica: non posso essere toccati, ma non possono neanche essere eliminati. L’obiettivo della gestione dei tabù non è la scomparsa del tabù, perché se il tabù sparisse porterebbe via con sé anche il confine dell’invalicabile, la comunità si contaminerebbe e quindi si cadrebbe esattamente dentro il "peccato" che il tabù vuole evitare. Il tabù e i suoi segni devono allora essere molto visibili, tutti devono poter riconoscere i suoi totem.
Possiamo capire molto del capitalismo, e in genere, dell’economia, se prendiamo sul serio il suo tabù della gratuità. Il rapporto tra la gratuità e il mercato contiene i tratti antropologici del tabù. Innanzitutto vi ritroviamo la violenza originaria. Le comunità tradizionali, o pre-mercantili, si basavano su due princìpi originari e distinti: la gerarchia e il dono. La gerarchia era lo strumento per la gestione del potere, mentre il dono regolava la reciprocità nelle famiglie, nei clan, nelle comunità. L’avvento dei mercati avviene sull’uccisione del dono, che deve morire per poter creare al suo posto il contratto e lo scambio commerciale, che si caratterizzano proprio per non essere dono, per non essere gratuità. L’economia di mercato non mette in discussione la gerarchia, anzi la radicalizza – tanto che le imprese capitalistiche sono anche il principale luogo, insieme agli eserciti, dove nell’era delle democrazie la gerarchia continua a svolgere una funzione essenziale e tutto sommato accettata socialmente. All’origine del mercato c’è invece una sorta di violenza primordiale sulla gratuità-dono (anche se non è avvertita né raccontata come tale dai suoi protagonisti). Anche la violenza di Caino è legata al dono e all’economia. Dio non accettava i suoi doni, una negazione che generò la violenza su Abele, l’eliminazione del fratello fragile che sapeva fare i doni. La gratuità è fragile e vulnerabile come Abele, esposta all’abuso, indifesa e umile. Ma Caino è anche il protettore dei mestieri, il fondatore della prima città, che prende il nome da suo figlio (Enock). E il suo stesso nome ha una forte assonanza con il verbo qanah: acquistare. Sempre nel libro della Genesi, poi, la parola "profitto" (bècà) fa la sua comparsa all’interno della scena della vendita di Giuseppe come schiavo da parte, ancora, dei suoi fratelli (37,28). La fraternità dei doni è negata dalla comparsa del profitto.
A Roma il numus (moneta) era il non-munus (dono). Nella modernità, a cuore del mito fondativo dell’economia politica, «la mano invisibile», ritroviamo la tesi che il motore della ricchezza delle nazioni non è «la benevolenza», la gratuità, dei commerciali, ma i loro interessi personali (Adam Smith). La mano visibile che conteneva i doni viene sostituita da quella invisibile del mercato, che non è la Provvidenza degli antichi, perché la sua natura è l’assenza del dono.
Anche la gratuità nel mercato, poi, non può essere profanata, ma deve essere visibile e ben in vista. Il confine che ne delimita il territorio coincide con i limiti stessi del mercato: la terra del gratuito inizia dove finisce quella del mercato, del contratto, degli incentivi. La gratuità inizia oltre i cancelli dell’impresa, dopo che abbiamo fatto la spesa e torniamo a casa. Tutti devono vederlo, tutti devono capirlo senza il bisogno di discorsi complicati: è sufficiente la vista dei suoi segni e dei suoi totem: cartellini, le durate delle pause pranzo, la gestione degli straordinari, e soprattutto il linguaggio. Le parole del tabù non possono essere pronunciate: guai a pronunciare la parola dono o gratuità e i suoi sinonimi durante l’ordinario svolgimento del lavoro.
Ma, come accadeva in alcune civiltà totemiche, anche qui ci sono alcuni momenti precisi nei quali l’oggetto intoccabile del tabù può e deve essere toccato, sacrificato, consumato ritualmente per potersi impadronire della sua forza misteriosa e terribile. E così nelle convention aziendali il dono viene evocato, pronunciato, mangiato, per rimetterlo poi il giorno dopo nel suo tabernacolo inviolabile. Si organizzano iniziative di volontariato dei dipendenti, cene sociali per aiutare i poveri, purché siano attività gestite e regolate dentro i confini rassicuranti delle regole e limitate a quel solo momento controllato. Questi donuncoli, doni addomesticati, gestiti e controllati, sono nuove bambole vudu, che riproducono le sembianze della persona vera (il dono-gratuità) con la speranza di controllarla e stregarla.
Quali sono, allora, le ragioni profonde della paura che la gratuità esercita sull’economia capitalistica, per farne il suo primo tabù? La prima ragione si trova, anche qui, nel suo fascino. Anche nella gratuità, come per tutti i tabù, il divieto nasce da un desiderio profondo. Nulla desideriamo più del dono: lo bramiamo, ci fa vivere, è la nostra vocazione profonda. E se l’economia è vita, anche nella vita economica il fascino del dono (dato e ricevuto) si sente forte, molto, troppo forte.
Ma nulla è più trasgressivo del dono, nulla è più libero. È trasgressivo e libero ovunque, ma nell’ambito economico i suoi effetti sarebbero particolarmente devastanti. Perché spezzerebbe le regole dei contratti, minerebbe la gerarchia. Se le imprese accettassero e accogliessero il registro del dono-gratuità si ritroverebbero con persone ingestibili, imprevedibili, capaci di azioni non controllabili dalle gerarchie e dagli incentivi, perché libere veramente. Avrebbero a che fare con lavoratori che seguirebbero le proprie motivazioni intrinseche, che lavorando travalicherebbero i limiti del contratto – che sono troppo stretti e piccoli per contenere la forza eccedente del dono. Si troverebbero di fronte persone che fuoriuscirebbero dagli organigrammi, dalle job-description, con molta più vita, quindi con molta più confusione e rumore come accade con le cose vive. E se poi i responsabili delle imprese riconoscessero questo dono come tale, se quindi diventassero riconoscenti nei confronti dei loro colleghi e dipendenti, si creerebbe nelle imprese quella reciprocità libera e quei legami forti che sono i tipici frutti dei doni riconosciuti, accettati, ricambiati. E la gerarchia cambierebbe, diventerebbe fraterna e quindi fragile, vulnerabile, esposta come il mite Abele: ma la fragilità e la vulnerabilità sono i grandi nemici delle imprese capitalistiche e della loro cultura immunitaria. Per evitare il rischio del riconoscimento del dono e la generazione di legami forti la cultura e la governance delle imprese rispondono semplicemente negandolo: è così che il tabù della gratuità rinasce e si rafforza ogni giorno. Le imprese e i mercati si proteggono dalla gratuità per proteggersi dalla propria morte.
Ma c’è ancora qualcos’altro da dire. Negli ultimi anni il tabù della gratuità è uscito dall’economia e dalle grandi imprese per passare progressivamente e velocemente alla società civile, alle organizzazioni non-profit, alle associazioni, ai movimenti, alle comunità. Il tabù si sta espandendo e la casa della gratuità sulla terra diventa sempre più angusta. Le tecniche e gli strumenti di gestione, che fino a poco tempo fa erano esclusiva delle sole grandi imprese e banche, stanno entrando in molti luoghi della società civile. Il vero prezzo, quasi sempre invisibile sebbene sia molto alto, dell’ingresso del management capitalistico all’interno delle organizzazioni civili, dei movimenti, delle comunità, è l’eliminazione progressiva in questi luoghi del dono libero. E così, paradossalmente, il tabù della gratuità si crea proprio nel cuore di realtà nate dalla e per la gratuità.
Chi riuscirà a violare questo grande tabù del nostro tempo? E se qualche profeta lo farà per noi, saremo poi capaci di camminare verso la terra delle donne e degli uomini liberi? O, anche noi, nel deserto rimpiangeremo la carne e le cipolle della schiavitù?
l.bruni@lumsa.it