sabato 25 febbraio 2017
Le «canzonette» dell'analfabetismo spirituale
Gli dèi facili dei mercati
COMMENTA E CONDIVIDI

Le mie parole sono troppo difficili per te, per questo ti suonano troppo facili
Yehudah ha-Levi, Kuzari


La legge aurea del mutuo vantaggio è alla base di molta vita buona degli esseri umani. Il mercato è una rete di scambi di interessi reciproci, ma anche le associazioni e persino le comunità e le famiglie possono essere descritte come un intreccio di relazioni mutuamente vantaggiose.

Nei processi educativi, nelle azioni tese alla riduzione delle vulnerabilità economiche e sociali, se ci muoviamo dentro il registro del mutuo vantaggio abbiamo più speranze di dar vita a pratiche rispettose della dignità della persona, più responsabili, meno paternalistiche. Per questa ragione, sono sempre stati molti i sapienti di ogni tempo ad aver individuato nella reciprocità (non nell’altruismo né nell’interesse individuale) la prima regola della vita comunitaria e sociale. Ci sono però dei luoghi del vivere dove cercare il mutuo vantaggio non è bene, perché soddisfare i reciproci interessi porta solo e semplicemente allo snaturamento e alla degenerazione di quei rapporti. Uno di questi ambiti è quello della spiritualità.

Il nostro tempo conosce una grande offerta di spiritualità a "buon mercato", anche nel mondo delle grandi imprese. Il capitalismo di ultima generazione, intuendo che i lavoratori sono esseri spirituali e simbolici, cerca di offrire un po’ di spiritualità anche nel posto del lavoro. Per un mutuo vantaggio: più felici i lavoratori, più produttivi i team di lavoro, più profitti per le imprese. Ma siccome la spiritualità vera e seria è difficile da "offrire" e da "domandare", tanto più in una cultura come la nostra che ha perso contatto con le fedi e con la pietà popolare – e la stessa parola "spiritualità" è diventata ambigua. Capire e apprezzare oggi una preghiera o un salmo è difficile almeno quanto capire e apprezzare le sinfonie di Mahler o di Respighi.

Siamo dentro un immenso processo di analfabetismo spirituale di ritorno. Abbiamo perso capacità di vita interiore, di pace dell’anima e di silenzio del cuore. Abbiamo accelerato lo scorrere del tempo, e poi lo abbiamo riempito in ogni sua frazione. E quando proviamo a prendere in mano libri come la Bibbia, un testo di poesie e di vera spiritualità, ci appaiono difficili, lontani, troppo lontani, muti. Non ci parlano, non li capiamo, non li amiamo, non ci amano.

La spiritualità autentica non è un bene di consumo, non aumenta il nostro comfort. Non è equivalente a un massaggio o a una doccia emozionale nella Spa degli hotel dove si svolge la convention aziendale. Nel benedetto giorno in cui incontriamo una spiritualità vera e ci sentiamo chiamati dentro a iniziare un nuovo cammino meraviglioso, comincia una vera liberazione. Entriamo in crisi, siamo ribaltati dentro, spesso all’inizio perdiamo produttività, non aumentiamo efficienza, perché per molto tempo, a volte per anni, siamo troppo distratti da "cose" che le imprese non vogliono.

E così, in cerca del mutuo vantaggio, il mercato abbassa i prezzi e offre imitazioni della spiritualità, facili e innocue, che ci intrattengono, ci attivano le emozioni più semplici che quando si placano ci lasciano come ci avevano trovati. Quelle emozioni che non ci chiedono nessuna conversione, e che ci confermano, quieti, in quanto facevamo ed eravamo già. Invece delle "sinfonie" ci offrono canzonette orecchiabili che riprendono strutture melodiche e armoniche delle opere vere, magari cantate qualche volta da star dell’Opera. E siamo tutti felici: le imprese, i lavoratori, i cantanti. Soffrono solo Mahler e Respighi, e chi li ama e li stima. Meglio Paulo Coelho di Isaia, il Vangelo di Tommaso di quello di Marco.

È questo un tipico caso in cui non è vera la regola del "meglio poco che niente", perché quel "poco", non essendo una porzione o un assaggio dello stesso bene, ma una merce di un’altra natura, (quasi) sempre la canzonetta spegne il desiderio delle sinfonie. Questo riduzionismo della fede e della spiritualità a bene di comfort sta influenzando decisamente anche quel poco che resta della vita religiosa e spirituale delle chiese, delle parrocchie e delle comunità religiose, nuove e antiche. È questo un altro dei molti paradossi del nostro tempo confuso, un altro eloquente segno della natura religiosa-idolatrica del capitalismo. La spiritualità ridotta a bene di consumo, considerare il fedele come un cliente portatore di gusti da soddisfare al meglio, offerte religiose tese a rispondere alla domanda di consumo spirituale, stanno infatti sempre più caratterizzando il nuovo panorama religioso.

Nel corso dalla sua lunga storia, l’umanesimo ebraico-cristiano è stato più volte profondamente influenzato anche dalla logica del mercato. La Bibbia abbonda di episodi, di racconti, di parole presi in prestito dal lessico e dalla mentalità dell’economia del tempo. Non capiamo l’Alleanza senza conoscere i trattati commerciali del tempo, né la Legge (Torah), né gli amici di Giobbe. E senza considerare l’economia non comprendiamo molte parole del Nuovo Testamento e neanche il Medioevo cristiano. Commercio ed economia hanno sempre offerto categorie e parole per interpretare e raccontare le vicende religiose. Ma – e qui sta il punto – quelle economiche e commerciali sono sempre state categorie e parole che hanno sistematicamente condotto le fedi su strade sbagliate, più facili, ma cattive.

I profeti, alcuni libri sapienziali, hanno cercato di raddrizzare quelle strade storte, mostrando un altro Dio e un altro uomo liberati dalla logica commerciale e dalla religione retributiva. Nel cristianesimo non ci siamo ancora liberati del tutto della "teologia dell’espiazione", che ci ha fatto leggere per molti secoli l’incarnazione e la morte di Gesù come il pagamento di un "prezzo" a un Dio-Padre detentore di un credito infinito verso l’umanità per i nostri infiniti peccati e debiti, che poteva essere ripagato-appagato solo dal sacrificio del suo Figlio unigenito. Una teologia-ideologia economico-retributiva che ci ha allontanato molto dalla Bibbia, ci ha velato le pagine più belle dei Vangeli, di san Paolo, e ha deformato l’idea di Dio e degli uomini. Le metafore e i linguaggi non sono mai strumenti neutrali: le parole creano, tutte, anche quelle sbagliate.

Oggi stiamo vivendo un’altra stagione di profonda influenza dell’economia sulla fede e sulla spiritualità, la più grande e potente di tutte quelle che abbiamo conosciuto lungo la storia. Il mercato sta cambiando progressivamente quella cultura religiosa che prima aveva combattuto e ridotto a merce, e sta creando nuove "teologie dell’espiazione e dei debiti", più potenti delle antiche, per la inedita potenza di questo nostro mercato. Il fenomeno è molto vasto. In superficie si manifesta nell’ingresso dentro parrocchie e movimenti del linguaggio e delle categorie aziendali e del management. Leadership, velocità, efficienza, e persino merito, sono parole che ormai costituiscono il vocabolario ordinario di molte comunità, movimenti, parrocchie, famiglie.

Ma dobbiamo guardare oltre la superficie se vogliamo vedere le cose più interessanti. Pensiamo, per esempio, al crescente sviluppo di "liturgie emozionali", dove si coinvolgono le persone attivando soprattutto la loro dimensione sentimentale ed emotiva. La gente arriva in Chiesa o nei gruppi influenzata da una cultura centrata sul consumo che attiva sempre più le emozioni e, in linea con la cultura edonista di questo capitalismo, incoraggia la ricerca del piacere. E così chiede, più o meno consapevolmente, che anche le liturgie le pratiche religiose soddisfino i bisogni emotivi. Se i responsabili di comunità e movimenti cedono alla logica economica del "mutuo vantaggio", abbassano i prezzi, e soddisfano le preferenze dei consumatori-fedeli che diventano presto fedeli-consumatori.

È difficile cogliere questa deriva consumistica della fede, perché la liturgia e l’esperienza delle fedi sono sempre state eventi globali, che hanno coinvolto la persona intera, incluse le loro emozioni. Tutti i sensi sono attivati nelle esperienze spirituali: gli occhi che guardano la bellezza dell’architettura, delle vetrate e degli affreschi, le mani che stringono altre mani, l’orecchio che ascolta la musica... Ma anche i culti idolatrici e totemici erano e sono esperienze sensoriali globali, che la Bibbia e i cristiani hanno duramente combattuto. Non avremmo avuto duemila anni di civiltà cristiane se nei primi tempi avessero prevalso le dimensioni emotive e di consumo nelle liturgie. Quella Rilevazione sarebbe stata riassorbita dai culti naturali circostanti.

Perché, come ci ricorderà sempre la grande tradizione sapienziale, la strada che conduce ai templi è piena di tranelli e di alcune trappole mortali. Esiste allora un "punto critico" sull’asse del consumo emotivo che non occorre superare. Senza il coinvolgimento dell’emotività, la spiritualità non diventa carne e non salva; ma se la dimensione emozionale e di consumo diventa l’unico o solo il principale registro della fede, è fin troppo probabile perdere contatto con il mondo biblico e ritrovarsi, senza né volerlo né saperlo, in un banchetto idolatrico, dove le prime vittime sacrificali siamo noi. Le comunità cristiane hanno dovuto lottare non poco per far sì che le loro cene non fossero quelle tanto comuni nei riti dei popoli del mediterraneo, per dire che l’eucarestia era tutto e solo gratuità e comunione donata, ricevuta, ridonata, rendimento di grazie. E per questo chiamavano quella cena col nome più bello: agape, lo stesso nome del loro Dio diverso.

Si vince l’eterna tentazione del consumismo idolatrico quando non si trattengono le persone dentro le liturgie, quando dalla "spiritualità-consumo" si passa alla "spiritualità-produzione", alla moltiplicazione della comunione al di fuori del tempio, non sotterrando il talento nelle cripte delle chiese. E invece l’enfasi sulla fede emotiva blocca le persone nelle case e nelle chiese, le ancora ai divani e alle panche, non le fa uscire per liberare qualcuno, almeno uno, almeno se stessi. L’enfasi sul consumo individuale e collettivo di beni religiosi trasforma inevitabilmente le comunità in club, ci allontana dalla storia, dall’incarnazione, dalle periferie, dai poveri. E quando finisce la liturgia emozionale, di quel cibo non resta nulla. L’autentica vita spirituale non è un’aspirina, ma una sostanza a lento assorbimento, che porta frutto a tempo opportuno, quando ci ritroviamo dentro qualcosa e Qualcuno che era cresciuto in silenzio nel nostro campo, mentre noi ci occupavamo di altro, degli altri. La fede di solo consumo non ci aiuta a camminare nella vita fuori dal tempio. E muore la bella laicità della strada.

l.bruni@lumsa.it


© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI