La civiltà e l'arte dell'attesa
sabato 19 giugno 2021

La vita vola via come un sogno, e non si fa in tempo a far niente prima che ti sfugga l’istante della sua pienezza. Per questo è fondamentale apprendere l’arte del vivere, la più difficile e la più importante delle arti: quella di colmare ogni istante di un contenuto sostanziale, nella consapevolezza che esso non si ripeterà mai più.
Pavel Florenskij, lettera del 20 aprile 1937 dal Gulag di Solovki​

La Bibbia contiene anche una grammatica dell’etica e della spiritualità dell’attesa. Il primo a praticare nella Bibbia l’arte dell’attesa è Dio stesso che ci aspetta mentre noi ci perdiamo nei porcili dove ci ha condotto la nostra voglia di felicità, o semplicemente la forza invincibile della vita. C’è poi la grande attesa del Messia, della fine dell’esilio, del risveglio di Dio, e quella infinita del ritorno del Signore. «Vieni, Signore Gesù», sono le parole con cui si chiude l’Apocalisse, con cui si chiude (non chiudendosi) la Bibbia cristiana. Attendono gli uomini (Noè la fine del diluvio, Abramo che arrivi il figlio promesso, Mosè che si converta il faraone, Geremia la parola per il popolo, Giobbe che arrivi finalmente Dio...); ma attendono, soprattutto e diversamente, le donne. Attendono nella Bibbia perché attendono nella vita. La nostra storia è anche storia di madri-spose-figlie-sorelle che hanno dovuto imparare l’arte dell’attesa, come parte essenziale dell’arte del vivere. Attendono attimo dopo attimo, li sentono tutti, senza farne passare invano neanche uno. Attendono nove mesi i bambini, e poi che i figli si perdonino gli uni gli altri, gli uomini che non tornano dalle guerre, quelli che tornano dal lavoro, dalle carceri, quello che forse un giorno finalmente capirà il male che ha fatto e tornerà a casa. In genere sono attese laboriose e attive, ma qualche volta, dopo aver fatto tutta la loro parte, quella possibile e quella impossibile, sanno attendere e basta. Come stanno per fare Rut e Noemi.

«Boaz le disse: "Apri lo scialle che hai addosso e tienilo forte". Lei lo tenne ed egli vi versò dentro sei misure d’orzo. Glielo pose sulle spalle e rientrò in città» (Rut 3,15). Boaz conclude il convegno notturno con Rut con un dono. Un dono, non atteso né previsto, che dice molte cose.
Il dono, in genere, precede un incontro, lo prepara, ne apparecchia lo spazio, è la prima parola muta del dialogo che sta per iniziare. Così fece un’altra donna che ha dei tratti in comune con Rut: Abigail. Questa, quando venne a sapere del possibile conflitto tra suo marito e il re Davide, «prese in fretta duecento pani, due otri di vino... cento grappoli di uva passa e duecento schiacciate di fichi secchi, li caricò sugli asini», e li portò in dono a Davide (1 Sam 25,18). I doni che precedono l’incontro sono preziosi. Chi li riceve dispone la mente e il cuore a una buona relazione. Lo sapeva anche Giacobbe che, prima di incontrare suo fratello ingannato Esaù, gli fece arrivare dei doni (Gen 32,14). Il dono preventivo è olio nell’ingranaggio delle relazioni. Arrivare da un amico con un dono non è solo buona educazione. In quella bottiglia di vino, in quel libro, in quel mazzo di fiori ci sono tracce di linguaggi antichi che sono stati il cemento delle civiltà. Ciò che oggi ci appare come cortesia è quanto resta di gesti decisivi che hanno trasformato le nostre lance in vomeri. Quell’oggetto che entra con noi nella porta di una casa amica, che qualche volta ci precede, celebra un legame, ti dice grazie perché ci sei, prima di sapere quanto buona sarà la cena. A volte, quando non abbiamo molte parole da scambiarci, o quando il dolore e la rabbia le hanno consumate tutte, arriviamo con un dono e la serata è già riempita di tutte le parole necessarie, che risuonano amiche sul nostro silenzio. E, altre volte, mi apri la porta, vedi il pacchetto; ci abbracciamo, e tutte le altre parole si sciolgono. Questi doni sono l’anima del perdono, che è un incontro di doni reciproci: per chiedere all’altro di essere perdonato devo precederlo con un dono – fossero soltanto le mie lacrime – il perdono è anche moltiplicazione del dono (per-dono).

Ma ci sono anche i doni che seguono gli incontri, quelli che arrivano dopo. Quando il pacchetto giunge alla fine, quando non ce l’aspettavamo, non c’era una ragione. Perché mentre i "doni prima" hanno bisogno di una ragione (e se non ce l’hanno, possono essere il dono del faraone o quello mafioso), i "doni dopo" no. Arrivano e basta. Per questo sono la sorpresa più grande, quella più gradita, tutta gratuità. I doni dopo potrebbero non esserci, non sono necessari. Per questo ci piacciono molto, forse troppo. E se non ne abbiamo ricevuto neanche uno, continuiamo ad attenderlo fino alla fine, e forse sarà il dono dell’angelo.
Quale la natura dei doni dopo gli incontri? Rut era rimasta probabilmente turbata dalle parole con le quali Boaz le aveva annunciato l’esistenza di un riscattatore (goèl) più prossimo di lui, che aveva la precedenza. Ed ecco giungere il dono a tranquillizzare, rincuorare, assicurare, a dire: "non temere, ci sono". I doni sono importanti sempre, ma soprattutto quando siamo nel turbamento, quando i rapporti vacillano. Noi maschi, qualche volta, sappiamo farli. Questi doni non sono contro-doni, perché se lo fossero non ci sorprenderebbero e non sarebbero tutta gratuità. Per questo sono eccessivi, larghi e abbondanti (sei misure corrispondevano forse a 42 litri). I "doni prima" possono essere economici e sobri; i "doni dopo" amano lo spreco, la dissipazione, la dépense (Georges Bataille), non devono seguire la logica del calcolo e delle equivalenze. Quel dono fu l’ultima parola di quell’incontro importante, perché il discorso tra di loro potesse continuare dopo quella notte. I "doni dopo" stanno lì a dire il valore di ciò che è già accaduto, a creare nell’altro un debito buono che potrà essere rimesso solo continuando la catena dei doni-gratuità. Forse a Boaz l’idea di quel dono gli venne durante l’incontro o alla fine, forse non lo aveva previsto. Perché questi doni hanno la capacità di sorprendere anche chi li fa.

«Arrivata dalla suocera, questa le chiese: "Com’è andata, figlia mia?". Ella le raccontò quanto quell’uomo aveva fatto per lei e aggiunse: "Mi ha anche dato sei misure di orzo, dicendomi: ’Non devi tornare da tua suocera a mani vuote’"» (3,16-17). La suocera l’accoglie con un umanissimo: «E allora?». Anche qui, come alla fine del capitolo secondo (2,21), Rut racconta a Noemi gli eventi con parole diverse da quelle che aveva udito da Boaz. Infatti l’uomo non le aveva detto che l’orzo fosse per Noemi, e tutto lasciava intendere che fosse per lei. Non esistono parole uguali per tutti. In ogni racconto di parole che abbiamo udito si inserisce la nostra interpretazione. Lo vediamo tutti i giorni nelle nostre famiglie, comunità e nelle nostre imprese, che sebbene facciano di tutto per rendere non equivoci e lineari i messaggi veicolati da parole dette e scritte, molti conflitti e inefficienze nascono dai diversi significati che diamo alle stesse parole che ascoltiamo e leggiamo. Accade a tutti, soprattutto alle donne, che hanno spesso esegesi diverse e più profonde delle parole, grazie a un rapporto tutto speciale con la parola (per doverla trasmettere all’inizio e alla fine della vita, quando solo loro riescono a decifrare sussurri e gemiti). E così un’espressione del viso, un ammiccamento, un’inflessione nel tono della voce, un sorriso, parlano insieme alle parole e le cambiano.

Qui Rut dona a Noemi una diversa lettura del dono dell’orzo, e lo fa diventare il dono di Boaz per Noemi. Forse lo aveva intuito dalle parole e dai gesti di Boaz, o forse Rut ha solo voluto fare il suo dono a Noemi cambiando il senso-direzione di quell’orzo. Il dono ama le distanze brevi. Non gradisce i passaggi intermedi. Il solo grado di separazione che vuole è uno. Se Rut avesse detto a Noemi: "Questo è il dono che Boaz ha fatto a me e che io ora faccio a te", il valore di quel dono per Noemi si sarebbe ridotto di molto. Nel mercato i diversi passaggi nella filiera della merce ne accrescono il prezzo e spesso il valore. Nel dono invece accade il contrario: se so che il dono che mi stai facendo lo hai ricevuto da qualcun altro, si riducono immediatamente il valore del tuo dono a me e il valore del dono fatto a te (è anche questa una ragione della norma sociale che vieta di riciclare i doni). Tutti i donatari amano le primizie – non solo Dio quelle di Abele.

Ma qui Rut ci suggerisce anche qualcos’altro. Ci dice quale deve essere il buon atteggiamento di chi si trova al centro di una trasmissione di doni. È il segreto dell’etica dei genitori, dell’educatore, dell’accompagnatore, del docente. Il dono della conoscenza che ti faccio non è qualcosa di mio che generosamente ti elargisco; io sono invece solo colui che ti trasmette "il dono dell’orzo" per te – Dio, la società che ti dona la sua eredità, la gratuità di cui è piena la terra. Quando invece chi sta in mezzo si trasforma nella fonte del dono, diventa un idolo e non ripete più: "L’orzo non è mio, era già qui per te". La prima generosità di un educatore sta nel non pensarsi e presentarsi come il padrone dell’orzo, ma solo come ponte del dono. Questa è la pre-condizione dell’autentica gratuità, necessaria in ogni processo di trasmissione della vita, del sapere e della sapienza. E anche quando sappiamo che in quanto stiamo trasmettendo c’è anche tutto il nostro talento e il nostro impegno personali, se siamo onesti sappiamo anche che la nostra parte è il bicchiere d’acqua in un oceano di gratuità.
Queste parole di Rut sul dono di Boaz sono le sue ultime parole nel libro. Nel IV capitolo lei non avrà più la parola. Non c’erano parole migliori per concludere il suo discorso.

«Noemi disse: "Sta tranquilla, figlia mia, finché non sai come andrà a finire la cosa. Di certo quest’uomo non si darà pace, finché non avrà concluso oggi stesso questa questione"» (3,18).
Le due donne hanno fatto tutta la loro parte, e qualcosa di più, per aiutare la Provvidenza a fare il suo lavoro. Ora è giunto il momento del riposo, della quiete, dell’attesa. È iniziato un altro tempo. Lo sanno. Si possono solo affidare alla bontà della vita e di Boaz, e sperare. La speranza ha bisogno dell’arte dell’attesa. Chi sa sperare ha imparato ad attendere. Il nostro tempo ha disimparato a sperare perché ha dimenticato il valore dell’attesa: «Tutta l’umana saggezza consisterà in queste due parole: attendere e sperare» (Alexandre Dumas, Il Conte di Montecristo).

l.bruni@lumsa.it

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