Il piccolo libro di Rut è tra i libri più belli della Bibbia, se non il più bello dal punto di vista narrativo. Contiene molti messaggi etici, sociali, economici e religiosi, ma prima e soprattutto è una storia meravigliosa, una stupenda novella. È una storia familiare, nuziale, è un brano della storia di Israele; ma prima ancora è una storia di donne, la storia di due donne co-protagoniste, tanto che potremmo anche chiamarlo Libro di Rut e Noemi. Perché se Rut emerge come una donna semplicemente splendida, non meno grande e affascinante è la figura di sua suocera Noemi, e il rapporto tra di loro. La storia di due donne sole, donne straniere, donne migranti, donne in cammino, donne amiche (una etimologia del nome ebraico Rut è "la compagna"). Una storia che si svolge lungo la strada, nei campi, nell’aia di casa, quasi interamente all’aria aperta. Non è storia di palazzo né di tempio. Tutto ruota attorno a quel rapporto speciale, tenace e unico con la vita che è tipico delle donne. Un libro che non solo parla di donne, ma è attraversato da uno sguardo tutto femminile. Ci sono espressioni, scene, dettagli grammaticali che sembrano provenire direttamente dal repertorio linguistico e intimo delle donne. Tanto che qualche autore e autrice ha azzardato (l’improbabile) ipotesi che l’autore del libro sia una donna: «Se c’è un libro della Bibbia per il quale possiamo assumere che è stato scritto da una donna, questo è il libro di Rut» (Irmtraud Fisher, Il libro di Rut come letteratura esegetica).
In realtà della storia di questo libro – come di tutti i libri biblici – sappiamo molto poco. Di certo chi l’ha scritto era un maestro delle tradizioni spirituali (e non solo ebraica) e della lingua che usa in tutte le sue potenzialità e sfumature, un conoscitore dell’animo umano, in particolare dell’anima delle donne. Sebbene sia ambientato in una fase arcaica della storia di Israele (attorno al XI-XII secolo a.C., al tempo dei giudici, un tempo tremendo), oggi sappiamo che con ogni probabilità il libro risale al V secolo a.C., anche se non si può escludere che alcune tradizioni orali su Rut e Noemi (forse distinte in origine) circolassero già prima e durante l’esilio babilonese. Pensarlo come un libro post-esilico aiuta a comprenderne alcune sue dimensioni essenziali: la terra straniera, la vedovanza, la solitudine, l’insicurezza radicale del futuro, il riscatto. Dentro quella desolazione vera inizia una nuova vita. Non c’era storia migliore di questa che Israele doveva ascoltare in quel tempo di rovine e di desolazione. Rut è anche un fiore del male.
Nella Bibbia greca dei Settanta il libro di Rut occupa un posto importante. Lo troviamo incastonato tra i Giudici e i libri di Samuele. Nella tradizione ebraica (testo masoretico) Rut è invece una delle Cinque Megillot o rotoli, un libro liturgico. Lo si legge nella "festa delle settimane" (shavuot), in greco Pentecoste, in origine una festa delle messi, celebrata sette settimane dopo l’offerta del primo covone di orzo nel giorno dopo Pasqua. La storia di Rut è avvolta nell’atmosfera del raccolto, il suo primo odore è quello del frumento e dell’aia. Il gesto con il quale molti artisti hanno lungo i secoli fissato l’immagine di Rut è quello della spigolatrice.
Il libro di Rut si trova al cuore della Bibbia anche perché in esso confluiscono molti suoi fiumi e vene sotterranee. Per capirlo in profondità e nelle sue molte allusioni dovremmo frequentare l’intera Bibbia. E, senza conoscere Rut, non capiamo brani decisivi del Nuovo Testamento, a partire dalle prime parole del primo Vangelo (la Genealogia di Gesù), passando per le parole del discepolo: «Maestro ti seguirò dovunque tu andrai» (Mt 8,19), finendo con Betlemme. In Rut udiamo echi chiari e forti delle figure centrali della Bibbia: Abramo, l’arameo errante, i patriarchi, Giuseppe in Egitto, Mosè e la Legge, tutti i profeti a partire dal rapporto tra Eliseo ed Elia. La campagna dove si svolge la storia sono campi di amicizia e di fraternità, non i campi di Caino («Mentre erano in campagna...», Gn 4,8). E su tutti Davide, il pro-nipote di Rut la moabita. Il libro di Rut è anche un distillato di tutta la Bibbia, un suo estratto sublime di fragranza femminile.
Due episodi vanno però esplicitati. All’origine delle storie di Rut e di Boaz, l’uomo che diventerà suo marito, ci sono due incesti. Rut è erede di Moab, il figlio nato dall’unione di Lot (ubriacato) con sua figlia maggiore, quando le figlie commisero incesto per assicurarsi una discendenza dopo la morte dei mariti nella distruzione di Sodoma (Gen 19). Boaz, invece, discende dall’unione tra Giuda, uno dei figli di Giacobbe, e sua nuora Tamar, che si era travestita da prostituta per non farsi riconoscere dal suocero (Gen 38). Due incesti voluti e costruiti da donne, per ottenere discendenze negate, per continuare la vita. La storia di Rut è anche la ricapitolazione di quelle antiche tradizioni, è il riscatto di quel lontano dolore; ma nel talento relazionale che Rut mostra nel conquistare Boaz c’è anche la traccia del talento di quelle antiche donne.
Nell’iniziare il commento del libro di Rut occorre cercare di rispondere a una domanda essenziale: dove sta Dio in questo libro? In Rut, Dio si fa da parte per lasciar parlare l’uomo e soprattutto per dare spazio alle donne, alle loro parole, ai loro gesti, alla loro anima. È questo, forse, il messaggio teologico più importante del libro: quando la Bibbia incontra le parole umane più grandi fa tacere Dio e fa parlare gli uomini e, qualche volta, le donne. Rut è un libro fatto di parole di donne e di uomini – su 85 versi totali, 55 sono dialoghi –, alle quali è affidata la rivelazione di alcune dimensioni essenziali del Dio biblico: amore (hesed), fedeltà, giustizia, riscatto dei poveri. Perché se è vero che la Bibbia contiene una rivelazione di Dio, a dirci chi è il suo Dio sono soprattutto gli esseri umani. E non lo fanno soltanto quando pregano nei salmi, né soltanto nelle parole della Legge e dei profeti; gli uomini e le donne bibliche ci dicono chi è Dio anche quando ci parlano semplicemente di azioni umane. Sta anche qui la natura reciproca dell’«immagine e somiglianza di Dio» (Gn 1,27): se noi gli somigliamo, anche Dio somiglia a noi. Se quindi vuoi conoscere il Dio biblico, non cercarlo soltanto nel creato, nei profeti e nel roveto ardente; cercalo anche nelle parole e nei gesti di Noemi, Rut e Boaz. Sta anche qui l’infinita, meravigliosa laicità vera della Bibbia, che è una grande epifania di Dio tramite epifanie di uomini e di donne, che nell’esercizio ordinario della loro umanità ci hanno detto qualcosa di importante su Dio – e continuano a dircelo ancora.
C’è, infine, nel libro di Rut una nota tutta umana che spicca sulle altre.
La Bibbia è piena di voci, di vocazioni, di uomini che ricevono una chiamata, che dialogano con Dio e poi quasi sempre partono per eseguire il compito ricevuto. Potremmo anche raccontare la Bibbia come il susseguirsi e l’intreccio di queste voci e questi dialoghi. Nel Libro di Rut, invece, queste voci divine non ci sono. Non ci sono gli angeli né Elohim a chiamare le sue protagoniste, non ci sono manifestazioni di Dio, non c’è quasi neanche il suo nome. Noemi e Rut si "alzano" e si mettono in cammino non come risposta a una voce esterna. La voce che le chiama, le fa alzare, camminare e tornare è tutta interna, e quindi noi lettori non la udiamo, ne vediamo solo gli effetti. Forse perché le voci che muovono le donne sono sussurri incarnati, sono gemiti di vita, sono segni scritti nell’invincibile vocazione alla vita. Noemi e Rut cercano e inseguono la vita, e così vivono la loro vocazione. Il Dio della vita vede queste azioni tutte umane, le riconosce come sue, vi appone il suo crisma. E poi ci dice: "Vuoi capire chi sono? Guarda Rut e Noemi".
Gli uomini biblici per muoversi sembra abbiamo bisogno di udire la voce di Dio che li chiama per nome. Le donne bibliche, quasi sempre, partono e basta, quasi sempre partono sole, in una solitudine tutta loro anche quando è ricoperta di compagnia e sororità – partono per vivere, per far vivere altri. Rut e le sue sorelle – Abigail, Anna, Rispa, Elisabetta, Maria.
E in questo c’è, forse, qualcosa del modo femminile di vivere le vocazioni – provo sempre un profondo imbarazzo quando si deve parlare dell’anima delle donne. Quando le donne raccontano le loro storie vocazionali dicono, spesso, storie diverse. La chiamata, l’incontro solenne e chiaro con la voce divina, non ci sono sempre; per mettersi in cammino con la loro tipica tenacia e fedeltà sono importanti le voci umane e gli incontri diversi con persone in carne e ossa, magari con il guardiano di un sepolcro vuoto. Hanno la rara capacità di intercettare il carattere divino dentro le voci umane, sanno, per un misterioso istinto spirituale, trovare l’infinito nel dettaglio, sanno riconoscere l’eterno in un bambino. Portano in sé la vita per donarla, e il Dio della vita ha fatto loro il dono di sentirlo e toccarlo dentro la vita – le religioni e i dogmi sarebbero stati molto diversi se li avessero raccontati le donne.
«Dio creò l’uomo a sua immagine e somiglianza, a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina lo creò». La Bibbia è anche una lunga spiegazione-esegesi di questa frase stupenda, posta, non a caso, nel primo capitolo del suo primo libro. Il libro di Rut completa questa esegesi, perché insieme agli altri libri ed episodi che nella Bibbia ci parlano di Dio parlandoci di donne ci spiega l’altra metà dell’immagine di Dio – maschio e femmina lo creò.
«Al tempo dei giudici, ci fu nel Paese una carestia e un uomo con la moglie e i suoi due figli emigrò da Betlemme di Giuda nei campi di Moab. Quest’uomo si chiamava Elimèlec, sua moglie Noemi e i suoi due figli Maclon e Chilion. Poi Elimèlec, marito di Noemi, morì ed essa rimase con i suoi due figli. Questi sposarono donne moabite: una si chiamava Orpa e l’altra Rut» (Rt 1,1-4).
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