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I ministri degli Esteri ucraino e lituano rendono omaggio a Kiev al memoriale delle vittime dei pogrom sovietici - Ansa
Un organismo senza difese è destinato a soccombere. Questa verità biologica si estende ben oltre il piano individuale, investendo anche le strutture sociali e politiche. Difendersi è un istinto primario: il corpo reagisce con un colpo di tosse quando un oggetto estraneo ostruisce le vie respiratorie, così come la mente rimuove un dolore insopportabile per non soccombere all’angoscia. Ma, soprattutto, quando gli esseri umani diventano una costante minaccia reciproca, la difesa diventa una necessità! La legittima difesa, riconosciuta dal diritto, nasce proprio da questa esigenza e l’ordinamento giuridico tutela la possibilità di proteggersi, purché non oltrepassi il limite dell’“eccesso di difesa” che trasformerebbe l’atto di protezione in un’aggressione simile a quella subìta, dunque condannabile.
Tuttavia, nella dimensione sociale, la difesa non riguarda solo la protezione di sé ma si estende alla tutela dei più fragili. Proteggere i bambini, i malati, chi è minacciato dal crimine organizzato o dalla violenza è un dovere morale e giuridico, ancor più evidente se chi è minacciato è innocente. Non difendere chi subisce un’ingiustizia significa essere complici. Anche qui l’etica s’intreccia con il diritto: l’omissione di soccorso è un reato, che ha radice non tanto nella paura quanto nell’indifferenza. Infatti, nel caso in cui il soccorso da portare sia lontano, la solidarietà cangia in estraneità.
L'indifferenza è il terreno su cui attecchisce ogni ingiustizia, ogni violenza lasciata impunita. Quando le opinioni pubbliche si svegliano, più o meno preoccupate o indignate, vuol dire che i fenomeni violenti e le guerre avevano iniziato l’incubazione molto tempo prima, superando tutte quelle occasioni in cui, al posto della vigilanza e di azioni forti, si è preferita l’indifferenza ignara o deliberata. Per questo la difesa, sia essa personale o collettiva, non può essere mai passiva: richiede azioni concrete, un impegno quotidiano tanto più forte quanto più la vittima è inerme.
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Franco Vaccari, fondatore e leader di Rondine Cittadella della Pace - Imagoeconomica
La difesa non è un atto isolato ma un processo complesso che si costruisce attraverso una moltitudine di gesti, scelte e responsabilità: della società civile e della politica. Da questa prospettiva, ben si comprende come la pace non sia semplice assenza di guerra ma cresce attraverso un lavoro costante di costruzione. Non si tratta affatto dell’alternativa netta tra guerra e tregua ma di un percorso fatto di innumerevoli micro-azioni quotidiane e di scelte politiche di lungo periodo. La pace è una tensione verso una pienezza di vita umana ed è, quindi, impegno collettivo che coinvolge ciascuno al proprio livello, ben oltre il recinto di chi semplicemente dice “pace”. Tra le molte ambiguità del presente, c’è questo spazio culturale diventato simile a un recinto dove sono entrate le volpi: la salvezza sarà per le aquile, non per i polli. Lo si vedrà nella necessaria chiarificazione e ripensamento radicale della cultura della pace.
Dunque, la pace richiede forza. Non si costruisce brandendo la parola per carezzare elettorati impauriti e disorientati. Per fare pace ci vuole forza: sembra lo stesso motto della presidente della Commissione Europea, Ursula von der Layen: «La pace attraverso la forza ». Ma è così? Vediamo se è vero facendo “esercizio di democrazia”, cioè dedicando un po’ del nostro tempo (l’accelerazione, la fretta, imposta dal dover sempre dare risposte su tutto, è cattiva consigliera ), di spazio (guardarsi in faccia è insostituibile, e almeno un po’ di carta di giornale ci difende dai “non luoghi” del discorso pubblico), non evitando la realtà del conflitto (che non è sinonimo di guerra, ma confronto che genera energia, dunque forza, al contrario del pensiero unico) e accogliendo l’inevitabile complessità (la semplificazione delle vicende umane è il primo tradimento). Quattro coordinate senza le quali la democrazia è minata alle fondamenta.
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Mettiamo a confronto il motto della von der Layen con quello di papa Francesco: «Disarmare le parole, per disarmare le menti e disarmare la Terra». Propone il raggiungimento di una pace senza la forza? È, dunque, solo un’utopia, un’aspirazione poetica? Promuove un atteggiamento rinunciatario (adesso che è convalescente...), oppure si tratta di una sfida politica concreta, un progetto per l’epoca nuova globalizzata? Riprendiamo tutte le micro-azioni quotidiane che, dicevamo, alimentano la pace: parole non ostili, non urlate, senza disprezzo e odio, frutto di una educazione, cioè parole disarmate. Rispetto della legge, ossequio alla verità, espressione libera, richiesta e pratica della giustizia, tutela della vita, soccorso del più debole e dell’indifeso, un pensiero critico che attraversa il dubbio, si educa ai valori della vita civile, si nutre dell’ascolto dell’altro, fa tesoro della scienza, rispetta le differenti posizioni, insomma, mente disarmata (ben insegnata da san Giovanni Paolo II, soprattutto in una trentina di messaggi per le Giornate mondiali della pace).
Attraverso questo processo, quotidiano e diffuso – se conveniamo che pace non è semplice assenza di guerra – si arriva a una “terra disarmata”. Un itinerario per cui occorre tanta forza. La forza dell’impegno e della tenacia, della pazienza e dell’intelligenza, dei valori che generano idee buone. Questa infinita declinazione della forza è quella che ci hanno insegnato i genitori quando ci inculcavano “la forza dell’onestà” e i maestri che testimoniavano “la forza della nonviolenza”. « Antiche come le montagne»: questo era, per Gandhi, il genere di quelle forze! È necessario, allora, rompere una delle equazioni più asfittiche e pericolose: forza = armi. Da troppo tempo la forza viene confusa con la potenza bellica, come se l’unico modo per difendersi fosse militarizzarsi, un verbo usato come sinonimo di deterrenza (concetto da studiare senza pregiudizi nell’era delle guerre ibride). Questa visione non solo riduce l’essere umano alla sua dimensione più brutale ma legittima la violenza organizzata come unica risposta possibile ai conflitti sociali e alle guerre.
La forza vera è un’altra cosa e si può esercitare tutti nell’esistenza quotidiana. La forza delle armi è l’ultima declinazione, da usare – forse – quando tutto è perduto, o quasi. San Paolo, che non era certo un uomo arrendevole né cercava la pace per starsene tranquillo, ci offre una serie di metafore illuminanti: «Rivestitevi dell’armatura di Dio (...); infatti non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro (...) gli spiriti del male (...); cinti i fianchi con la verità; indosso, la corazza della giustizia (...). Tenete sempre in mano lo scudo della fede (...), prendete anche l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito, che è la parola di Dio» (Efesini 6, 13-17 passim) . Qui la forza non è mai usata per distruggere l’altro ma per combattere un inganno: la maschera del nemico che si sovrappone al suo volto umano, autorizzandone l’eliminazione.
La vera battaglia, dunque, non è tra popoli o individui, ma contro quelle idee, quelle logiche e quei sistemi che alimentano il ciclo della violenza. Ora, quale forza vogliamo esercitare? Quella che annienta o quella che costruisce? Quella che schiaccia il nemico o quella che lo disarma? La vera difesa della pace non è quella che si esprime prima di tutto (o solo) con gli arsenali ma quella che si gioca nel coraggio delle parole giuste, nella resistenza alla menzogna, nella capacità di restare umani anche in guerra. Solo così potremo aspirare davvero a una “Terra disarmata”. Non come illusione ingenua ma come progetto politico e culturale che dia un senso autentico alla parola “forza”. Perché se la pace ha bisogno di forza, allora è tempo di decidere quale forza vogliamo essere.