Del Giordano le rive saluta,
di Sionne le torri atterrate
O, mia patria,
sì bella e perduta!
O, membranza, sì cara e fatal!
Arpa d’or dei fatidici vati,
perché muta dal salice pendi?
Temistocle Solera, Va, pensiero
da Il Nabucco di Giuseppe Verdi
«L’anno terzo del regno di Ioiakìm, re di Giuda, Nabucodònosor, re di Babilonia, marciò su Gerusalemme e la cinse d’assedio. Il Signore diede Ioiakìm, re di Giuda, nelle sue mani, insieme con una parte degli arredi del tempio di Dio, ed egli li trasportò nel paese di Sinar, nel tempio del suo dio» (Daniele 1,1-2).
In tutti i grandi libri l’incipit è essenziale. In alcuni è quasi tutto. L’autore del libro di Daniele lo colloca nell’esilio babilonese, già a partire dalla prima ondata della deportazione, quella del 598-597 a.C., quando il tempio fu saccheggiato ma non distrutto, cosa che invece avverrà dieci anni dopo con la seconda grande distruzione-deportazione. In quella prima ondata furono esiliate le élite politiche, economiche e religiose, tra queste finì anche il profeta Ezechiele. I riferimenti storici non coincidono con quelli narrati dal Secondo Libro dei Re (24) né da Geremia (25,36,46), che sono le fonti storiche più attendibili, sebbene i dati di Daniele siano coerenti con il Secondo Libro delle Cronache (36). All’autore che scrive circa quattro secoli dopo i fatti narrati, non importa il rigore della cronologia ma il contesto teologico: Daniele è uomo dell’esilio, la sua vita e la sua azione profetica si svolgeranno tutte in Babilonia, dall’inizio alla fine decretata dall’Editto di Ciro: «Così Daniele vi rimase fino al primo anno del re Ciro» (1,21).
L’esilio babilonese, dunque. La Bibbia è anche una mappa, ha la sua geografia. L’esilio è uno dei suoi punti cardinali, che consente all’uomo biblico di individuare dove siano l’alto e il basso, dove sorge il suo sole e dove tramonta, una mappa essenziale per i lunghi viaggi dell’anima individuale e collettiva. Dopo l’esilio nulla fu come prima. La fede di Giacobbe-Israele uscì da quel combattimento notturno ferita e benedetta, con un nuovo nome (Gn 32). YHWH divenne un Dio diverso, non più una divinità nazionale guerriera "degli eserciti", che rivaleggiava con gli altri dèi e dimorava nel suo tempio stupendo, con cui si dialogava con le offerte dei sacrifici. Ritrovatisi senza tempio, senza patria e con un Dio sconfitto dagli «dèi falsi e bugiardi», gli ebrei riuscirono a salvare la loro identità, capirono che la casa di Dio era il mondo intero e che lo si poteva adorare ovunque in «spirito e verità», che la misericordia era più importante dei sacrifici di tori, e un giorno tolsero le arpe dai salici a cui le avevano appese e ripresero il loro canto (Salmo 137). L’esilio fu un’enorme distruzione creatrice: le certezze teologiche e sociali dei primi secoli del grande regno di Davide furono spazzate via, si ritrovarono umiliati e poveri, ma un giorno lungo i fiumi di Babilonia iniziò una resurrezione. Un "resto fedele" tornò: dopo settanta anni di esilio rientrò a casa solo una parte esigua di quelli che l’avevano lasciata, ma quel piccolo gregge aveva conservato la fede, quindi aveva salvato tutto – è la fede-fiducia che va salvata negli esili, solo questa conta.
E la corsa poté riprendere, e ancora continua. Lungo quei grandi fiumi si iniziarono a scrivere i libri più belli: le storie dei patriarchi, molti salmi, forse alcune pagine di Giobbe e del Cantico, i capitoli del Servo sofferente e il rotolo di Ezechiele. Molta Bibbia, alcuni profeti grandissimi e forse anche lo shabbat, furono il prezioso patrimonio (dono dei padri) dell’esilio. E non è da escludere che il Salmo 22, lo spartito su cui gli evangelisti composero la sinfonia della Passione, sia nato in esilio, dal canto di un Dio ritrovato dentro l’abbandono. Gli esili non terminano se un giorno non ricominciamo a cantare in terra straniera.
In questo incipit troviamo anche alcuni nomi biblici essenziali. Il primo è Nabucodònosor, il re dei babilonesi. Un nome analogo a Pilato per i Vangeli, che suo malgrado è entrato nel racconto decisivo e persino nel Credo. Ogni racconto della storia della salvezza contiene quel nome di re, a ricordarci che nelle nostre storie di salvezza non ci devono essere soltanto i nomi di coloro che ci hanno amato e salvato. Ci sono, ci devono essere anche i nomi che ci hanno fatto soffrire, i nomi che ci hanno inchiodato, perché ci ricordano la verità del dolore e della storia. Anche loro sono memoria, anche loro sono attori necessari nel dramma della salvezza, anche se non lo sapevano né lo volevano.
Giuseppe Verdi scrisse il Nabucodònosor (abbreviato in Nabucco) mentre il suo popolo, in un altro esilio, lottava per far finire un’altra occupazione. E quando al teatro La Scala si intonava il Va, pensiero, la «patria bella e perduta» era quella degli antichi ebrei, ma era anche, e soprattutto, quella dei milanesi e degli italiani occupati. E così capiamo il "librettista" di Daniele: quando gli ebrei sotto la persecuzione di Antioco IV Epifane cantavano il nome di Nabucodònosor in realtà cantavano di un altro re, un’altra lotta, un altro esilio, un’altra resistenza. Anche questa è la forza della parola, la forza debole e straordinaria dell’arte.
Un altro nome, che ci potrebbe apparire dettaglio secondario e trascurabile, è il «paese di Sinar». Nella Genesi Sinar è la regione abitata da Nimrod, il «primo potente della terra» (Gn 10,8-10). Ecco perché non ci stupisce leggere che il luogo dove gli scampati dal diluvio costruirono la Torre di Babele è proprio Sinar: «Tutta la terra aveva un’unica lingua e uniche parole. Emigrando dall’oriente, gli uomini capitarono in una pianura nella regione di Sinar e vi si stabilirono» (Gn 11,1-2). Babele, Babel, cioè Babilonia. L’inizio del libro di Daniele ci suggerisce allora che il libro che sta per iniziare è anche una riflessione teologica e sociale sul potere, su come salvarsi l’anima quando si è oppressi da un grande potere e da un grande potente, su come uscire innocenti dalle sue seduzioni e tentazioni invincibili. Un potere che, nella Bibbia, è sempre idolatrico, perché promette un’altra salvezza, legata alla forza e alla grandezza e non alla voce povera e nomade di un Dio deponente, che non esercita il potere a mo’ dei potenti di questa terra perché, come fa l’oceano con i continenti, si ritrae per far emergere noi e la nostra libertà. Se non usciamo da ogni lettura profonda della Bibbia con una più radicale critica a ogni forma di potere e un desiderio di liberare gli oppressi dai molti potenti, la lettura è stata vanitas.
«Il re ordinò ad Asfenàz, capo dei suoi funzionari di corte, di condurgli giovani israeliti di stirpe regale o di famiglia nobile, senza difetti, di bell’aspetto, dotati di ogni sapienza, istruiti, intelligenti e tali da poter stare nella reggia, e di istruire loro nelle lettere e nella lingua dei Caldei... Dovevano essere educati per tre anni, al termine dei quali sarebbero entrati al servizio del re. Fra loro vi erano alcuni giudei: Daniele, Anania, Misaele e Azaria» (1,3-6). Siamo nell’ambiente di corte. Quattro giovani giudei di famiglia regale o nobile, quindi parte di quelle élite aristocratiche deportate, vengono introdotti nell’ambiente di corte. Sono giovani belli, sani, istruiti, intelligenti e sapienti, caratteristiche che nella tradizione sapienziale stavano quasi sempre assieme. La meglio gioventù tra i deportati. L’apprendistato alla cultura e alla lingua dei caldei sarebbe durato tre anni, un baccellierato in scienze e letteratura. I caldei in quel tempo erano le élite culturali e scientifiche dei babilonesi, esperti soprattutto di tecnica, divinazione e astronomia.
Ed ecco un altro messaggio decisivo di questo primo capitolo. Gli ebrei rimasero molto colpiti, forse sbalorditi, dalla cultura e dalla scienza dei babilonesi. Quella civiltà superiore da molti punti di vista li tramortì, li sedusse profondamente, e non pochi ebrei pensarono di abbracciarla. Il libro di Daniele è un grande esercizio etico di resistenza culturale di un piccolo popolo povero di fronte alla forza culturale e scientifica di un grande impero. La prima tentazione che dovettero fronteggiare non fu religiosa, non quella legata al fascino di Marduk e delle sue processioni spettacolari; no, il popolo della parola fu tentato dalle parole, il popolo della sapienza fu tentato da un’altra sapienza. Una tentazione analoga a quella che gli scrittori di Daniele avvertivano nei confronti della grande cultura e sapienza ellenistica. Per questo la lettura del libro di Daniele è gesto essenziale per chi si trova a voler custodire una eredità povera dentro la ricchezza, una debolezza sotto una potenza, perché sente che quella povertà e quella piccolezza sono, semplicemente, la sua anima: sono semplicemente lui, lei.
Una delle più grandi benedizioni dell’esilio babilonese (meno dell’occupazione greca) fu una vera e propria quadratura del cerchio: il popolo riuscì a custodire la sua identità ma si formò e nutrì anche della grande cultura e scienza babilonese. Da qui nacquero i miti biblici e tante perle di sapienza sparse nella Bibbia, talmente ben incastonate nell’edificio biblico da non poterle più riconoscere. La grande speranza contenuta nel libro di Daniele sta allora nella possibilità di imparare anche dai poteri nemici, di crescere anche dentro le disgrazie più grandi, di vivere nutrendosi del cibo degli artefici del proprio fallimento.
I quattro nomi dei giovani sono tutti nomi teofori: "Dio ha giudicato" (Daniele), "YHWH ha mostrato grazia" (Anania), "Chi è ciò che Dio è?" (Misaele), "YHWH ha soccorso" (Azaria). Però «il capo dei funzionari di corte diede loro altri nomi, chiamando Daniele Baltassàr, Anania Sadrac, Misaele Mesac e Azaria Abdènego» (1,7). Nella Bibbia troviamo spesso l’operazione del cambiamento del nome, che è di due specie opposte. I babilonesi amavano questi esercizi: «Il re di Babilonia nominò re, al posto di Ioiachìn, Mattania suo zio, cambiandogli il nome in Sedecìa» (2 Re 24,17). Gesto analogo quello compiuto qualche anno prima anche dagli egiziani con il padre del re Ioiachìn (2 Re 23,34). I padroni amano molto cambiare il nome ai propri sudditi, siano essi politici o spirituali, perché il nuovo nome è marchio di proprietà privata. Il Dio biblico invece non ci cambia il nome. Gli piace molto il nostro nome, perché non c’è nulla di più bello del nome dei figli. E con quello ci chiama: «Samuele», «Agar», «Maria». E le poche volte in cui ce lo cambia (Giacobbe, Simone) lo fa per indicarci un non-ancora d’amore ancora più libero.
È difficile attraversare gli imperi conservando il nome con il quale ci siamo arrivati. Sono tanti i potenti che cercano di cambiarcelo, di toglierci il nostro primo nome libero di figli per imprimerci il sigillo dello schiavo. Beato chi custodisce il nome del primo giorno perché nell’ultimo lo sentirà pronunciare da una voce buona.
l.bruni@lumsa.it