l linguaggio «sovversivo» della verità, scelto da Enrico Letta per chiedere la fiducia del Parlamento al suo governo di servizio al Paese, è risuonato ieri per cinquanta minuti in un’aula di Montecitorio ancora scossa e incredula per il cruento episodio di violenza accaduto domenica, a meno di cento metri dal fregio del Sartorio che circonda l’emiciclo. Ed è sembrato, sia per i contenuti e gli accenti vigorosi e aperti alla speranza, sia per la prima complessiva accoglienza ricevuta dalle forze politiche, poter inaugurare davvero «una stagione nuova» nella vita repubblicana. Non limitandosi dunque all’ennesimo, sterile tentativo di promuovere una fragile tregua, ma alzando coraggiosamente lo sguardo verso un futuro che, nonostante la perdurante gravità della crisi che ci attanaglia, è ancora in gran parte nelle nostre mani.Il presidente del Consiglio ha pronunciato un discorso consapevole della sfida che lo attende, sia sul terreno politico che su quello dell’azione di governo. Ha difeso con convinzione e anche con abilità la scelta «eccezionale» della collaborazione tra avversari, quando ha chiesto a quanti non condividono le larghe intese il giusto rispetto per chi, al contrario, accetta la via «non facile» di convergere tra «posizioni così eterogenee», consapevoli che la vittoria o la sconfitta del tentativo in atto coinvolgerà tutti. E nel fissare a se stesso il limite temporale di un anno e mezzo, dopo il quale compirà un’obiettiva verifica dei progressi compiuti nel dialogo riformatore, mettendo così in gioco la prosecuzione del suo incarico, ha dimostrato di credere in un’operazione che, se avrà successo, proietterà i suoi effetti positivi ben oltre l’orizzonte della legislatura che si è appena aperta.Nell’affrontare poi i molteplici compiti che lo attendono, Letta ha tracciato un percorso ambizioso, che collega la prosecuzione del rigore nel gestire le risorse pubbliche («perché un buon padre di famiglia non fa debiti») e il sacrosanto taglio delle spesa per il "Palazzo" e per i suoi inquilini, con l’impegno per interventi immediati su fisco e lavoro, capaci di dare immediato sollievo a chi soffre i morsi più violenti della crisi e di offrire prospettive di rilancio al sistema produttivo. Un percorso che, in maniera significativa, si aprirà già oggi con una missione nelle principali capitali di quell’Europa che, agli occhi del discepolo di Nino Andreatta, deve cessare di mostrarsi con il volto arcigno e scoraggiante del gendarme, per tornare ad assumere i contorni del «nostro viaggio» comune verso il domani.Ci si può chiedere con qualche ragione come e dove trovare i fondi per attaccare in simultanea i costosi capitoli dell’Imu da ridurre, dell’Iva da non far aumentare, degli incentivi alle imprese che assumono, del reddito minimo da attivare per i più bisognosi. Si può immaginare che l’approccio sarà necessariamente graduale e che dovrà poter contare su un sostanzioso allentamento dei vincoli contabili previsti dal "fiscal compact" comunitario. Ma soprattutto si percepisce, dal tono complessivo del premier, una scommessa sulla possibilità di rovesciare in breve tempo il clima di pessimismo e di rassegnazione che imprigiona famiglie e operatori economici, attivando risorse aggiuntive e innescando un ciclo virtuoso anche sul piano finanziario. In realtà, di «scommettere su cose grandi» Letta ha parlato in modo esplicito, citando testualmente l’esortazione domenicale di Papa Francesco rivolta ai giovani. Ed è importante che abbia collegato la sfida generazionale ai bassi livelli di istruzione e di impiego, ma anche e soprattutto all’incalcolabile perdita umana per i tanti bambini che, ogni anno, non nascono per colpa della precarietà che spinge le giovani famiglie a rinunciare a procrearli: non solo un "vulnus" demografico, ma un’intollerabile «ferita morale», preludio a un progressivo «suicidio economico» dal quale non ci sarebbe ritorno. Torna alla ribalta, in definitiva, il tema del «coraggio» lanciato lunedì scorso da Giorgio Napolitano, che il capo del governo ieri ha ripreso. Prima per invitare a una generale e sincera autocritica sulle responsabilità del passato, poi per riassumere l’atteggiamento di Davide nella valle del Terebinto, al momento di affrontare quel Golia in apparenza invincibile: al posto della spada e dell’ingombrante armatura, il giovane pastore aveva raccolto nella sua bisaccia i cinque ciottoli necessari ad abbattere il gigante. Ma guai se, nel cuore, non avesse alimentato anche l’arma decisiva della fede. Per lui, oggi, laicamente l’arma di una "fiducia" offerta e ricevuta