L’articolata memoria che ho di Carlo Caffarra, una memoria che fa riferimento a tanti e tanti incontri che si dilatano in uno spazio che va ben oltre i quarant’anni, si condensa in tre momenti, apparentemente molto semplici, ma per me, per la mia esperienza culturale e spirituale, di notevole rilievo. Il primo momento, il più antico, risale agli inizi degli anni Settanta, ai miei primi anni di apprendistato universitario, quando ero giovane allievo di Sergio Cotta, già ritenuto a quel tempo la figura di spicco della filosofia del diritto italiana di orientamento cattolico. Partecipai, assieme a Cotta e agli altri suoi allievi, a un seminario tra i cui relatori figurava appunto Carlo Caffarra, allora giovane docente di teologia morale a Milano; un seminario che diede origine a dibattiti vivacissimi e intriganti.
Commentando successivamente il seminario, con noi, i suoi allievi, Cotta ci esortò a leggere, ogni volta che ci fosse stato possibile, gli scritti di Caffarra, «un prete che ha letto Hegel!». Sulle prime, questa affermazione mi stupì, dato che né nella relazione, né nel dibattito Caffarra aveva mai citato il filosofo tedesco; ma poi, riflettendo meglio e grazie anche ad alcune rapide parole di spiegazione che riuscii ad 'estorcere' a Cotta, capii che tutte le considerazioni fatte da Caffarra nel seminario implicavano un’evidente e seria conoscenza della deriva postcristiana della modernità, deriva che Caffarra aveva descritto assumendo il pensiero hegeliano come punto di riferimento implicito e imprescindibile.
Ma ciò che aveva colpito Cotta non erano solo le obiettive conoscenze hegeliane di Caffarra, ma il fatto che queste conoscenza fossero state pienamente elaborate da un teologo moralista, e per di più «prete», in un’epoca nella quale, tranne rare eccezioni, lo studio dell’etica teologica escludeva decisamente ogni riferimento a dottrine extra-ecclesiali. L’elogio di Cotta nei confronti di Caffarra era quindi una chiara indicazione, della quale non ho mai perso memoria. Incontrai direttamente e personalmente Caffarra agli inizi degli anni Ottanta, quando gli feci recapitare, in doveroso omaggio, una copia del libro che avevo dedicato alla famiglia. Caffarra era appena stato nominato dal Papa preside dell’Istituto 'Giovanni Paolo II' di studi su matrimonio e famiglia.
Mi aspettavo, tutt’al più, un cortese biglietto di ringraziamento. Invece ricevetti, dalla segreteria dell’Istituto, una telefonata, attraverso la quale venivo invitato a un incontro personale col Preside. Accettai immediatamente, come è naturale ed andai da Caffarra con qualche curiosità: nel libro avevo criticato alcune tesi che Caffarra aveva espresso e che avevano suscitato diverse polemiche: mi chiedevo, con qualche apprensione, se avrei saputo fronteggiare le obiezioni che pensavo - egli mi avrebbe sicuramente rivolto, da teologo ormai nel pieno della sua maturità intellettuale. Il colloquio, che durò molto a lungo, ebbe invece un carattere del tutto diverso. Caffarra aveva letto attentamente il mio libro e, con estrema eleganza, non fece cenno alla parte che lo riguardava direttamente; discusse con me le altre, diverse tesi che io difendevo, a volte condividendole, a volte prendendo le distanze da esse, a volte mostrando quanto fosse opportuno approfondirle. dandomi sempre in ciascun caso occasioni preziose per ulteriori riflessioni. Ed infatti, quando decisi di pubblicare una nuova edizione del libro mi convinsi che fosse giusto modificarne il titolo, tante erano le revisioni e le correzioni che, grazie anche a quel colloquio, vi avevo apportato.
Ma la conseguenza più sorprendente e inaspettata di quell’incontro fu l’invito, da parte di Caffarra, di entrare nel novero dei docenti dell’Istituto Giovanni Paolo II: un invito che accolsi con gioia e che costituì per me una chiara espressione della libertà intellettuale dell’ancor giovane e già molto autorevole teologo della famiglia, pronto ad offrire uno spazio didattico non a chi la pensasse esattamente come lui, ma a chi dava la prova (a suo avviso) di saper fare 'filosofia della famiglia'. L’ultimo ricordo 'forte' che ho di Caffarra risale a qualche anno dopo, al 1995, quando, a causa della nomina ad arcivescovo di Ferrara, fu costretto a lasciare la presidenza dell’Istituto Giovanni Paolo II. Riunì tutti i docenti e tutto il personale dell’Istituto per un saluto: l’incontro, che avrebbe dovuto avere un carattere festoso, data l’importanza della diocesi che Caffarra era stato chiamato a guidare, ebbe invece un tono incredibilmente malinconico.
Caffarra disse chiaramente che lasciava l’Istituto in spirito di ubbidienza, ma che lasciandolo, soffriva profondamente, perché sapeva di perdere una parte di sé, quella evidentemente che più gli stava a cuore, nella quale risiedeva la vera radice della sua identità. Ci stringemmo tutti a lui, insistendo sul fatto, peraltro ovvio, che l’episcopato non avrebbe impedito a lui di continuare nel suo magistero, né a noi di continuare a imparare da lui. Non ci rendevamo conto, però, che in quell’incontro Caffarra ci stava dando, con estrema delicatezza, un grande insegnamento (di antica radice tomistica), quello dell’opportuna distinzione tra la pastorale e la didattica teologica: una distinzione che, quando si affievolisce, come in questi ultimi anni sembra che avvenga sempre più frequentemente, crea problemi ecclesiali e dottrinali di enorme portata.
Tanto mi basta per tenere nel cuore la memoria di Carlo Caffarra, prete e uomo di pensiero, vescovo e cardinale. È inevitabile che molti giornali, nel dare notizia della sua scomparsa, abbiano insistito sui dubia che egli, assieme a tre altri cardinali, aveva espresso a Papa Francesco sull’Amoris laetitia. Ma è anche opportuno ricondurre questi dubia a una personalità didatticamente e teologicamente forte, che chiede, per essere giudicata adeguatamente, un’attenzione che merita pazienti e accorte elaborazioni, che richiederanno tempi non brevi.