Chi pensa che l’attenzione nei confronti dei migranti sia un’invenzione di papa Francesco sbaglia grossolanamente. La Dottrina sociale della Chiesa cattolica ha guardato al tema per tutto il Novecento. Per citare un solo illuminante esempio, Pio XII nel 1952 con la Costituzione apostolica Exsul Familia indicava l’icona della Sacra Famiglia costretta a cercare rifugio in Egitto come riferimento per la «materna sollecitudine » della Chiesa per gli emigrati. Papa Pacelli non esitava ad aggiungere che «la terra è stata creata e preparata per uso di tutti».
Anche papa Benedetto, nella Caritas in veritate, ha dedicato un passaggio molto incisivo alla questione delle migrazioni, dichiarando: «Ogni migrante è una persona umana che, in quanto tale, possiede diritti fondamentali inalienabili che vanno rispettati da tutti e in ogni situazione » (62). È indubbio però che le questioni dell’accoglienza dei rifugiati e dei diritti dei migranti occupino un posto di rilievo nella predicazione sociale di papa Francesco, fin dalla sua prima uscita dalle mura vaticane per recarsi a Lampedusa, e da lì sferzare l’indifferenza nei confronti delle vittime dei viaggi per mare alla ricerca di una nuova terra. Le resistenze che questo messaggio incontra nel clima politico contemporaneo non sembrano sortire altro effetto che quello di rafforzare la determinazione del pontefice nel proporre la solidarietà verso i migranti come tema decisivo per la declinazione della carità cristiana nel XXI secolo.
Con l’enciclica Fratelli tutti, Francesco compie un altro passo avanti nel configurare nel modo più autorevole l’accoglienza degli stranieri come luogo privilegiato per l’esercizio concreto della fraternità. La questione è presa di petto con un’analisi articolata, equilibrata, ma insieme inequivocabile sulla direzione di marcia. Il Papa richiama il «diritto a non emigrare», evoca la sofferenza delle famiglie separate dai confini, ricorda il problema delle comunità di origine che rischiano di perdere i soggetti più vigorosi e intraprendenti. Osserva che alcuni partono perché attratti dalla cultura occidentale, nutrendo aspettative irrealistiche ed esponendosi a pesanti delusioni (38).
Sul versante delle società riceventi, dichiara di comprendere che di fronte ai migranti alcuni nutrano dubbi o provino timori, come effetto dell’istinto naturale di autodifesa. Ammonisce però a non cedere a queste pulsioni: «Una persona e un popolo sono fecondi solo se sanno integrare creativamente dentro di sé l’apertura agli altri» (41), giacché «le migrazioni costituiranno un elemento fondante del futuro del mondo». Un’affermazione questa destinata a rimanere come una cifra emblematica del suo pontificato. Anche all’interno della Chiesa cattolica il papa non si nasconde difficoltà e resistenze, ma dichiara «inaccettabili» modi di trattare i migranti che li considerino «di minor valore, meno importanti, meno umani».
Le convinzioni di fede devono far prevalere «l’inalienabile dignità di ogni persona» e «la legge suprema dell’amore fraterno». Nel pensiero del Papa, rifugiati e migranti non sono però soltanto i beneficiari di azioni di accoglienza intraprese da altri. Devono invece essere resi «protagonisti del proprio riscatto» (n.39). Nello stesso tempo, l’arrivo di persone diverse si trasforma in un dono, ossia in un’opportunità di arricchimento mediante l’incontro tra persone e tra culture, contrastando quelle tentazioni di ripiegamento identitario che producono una «sclerosi culturale » (134). Ricordando l’immigrazione italiana ed ebraica in Argentina, il papa ricorda che gli immigrati «se li si aiuta a integrarsi, sono una benedizione, una ricchezza e un nuovo dono che invita una società a crescere» (135).
La strada non è quindi quella di programmi assistenziali calati dall’alto, ma è da costruire insieme, nel solco dei quattro verbi cari al papa: accogliere, proteggere, promuovere, integrare. Serve quindi una governance mondiale delle migrazioni, ma serve insieme un’azione dal basso «per costruire città e Paesi che, pur conservando le rispettive identità culturali e religiose, siano aperti alle differenze e sappiano valorizzarle nel segno della fratellanza umana ». Il dialogo (un termine che ritorna 44 volte nell’enciclica), nel suo alto significato interreligioso, scaturisce dall’esperienza di incontro tra diversi promossa dalle migrazioni. Nel solco del documento di Abu Dhabi, si tratta di un terreno fecondo per lo sviluppo di nuovi rapporti tra Oriente e Occidente, tra Nord e Sud del mondo. La sfida non è solo quella di accogliere, ma di lasciarsi trasformare, insieme, dall’accoglienza reciproca.